mercoledì 22 luglio 2009

SENTENZA N. 28482/09 DELLA SESTA SEZIONE PENALE DELLA CASSAZIONE

La Corte Suprema di Cassazione – Sesta Sezione Penale
Composta dagli Ill.mi Sigg.:
Dott. Lattanzi Giorgio Presidente
Dott. Mannino Saverio Felice Consigliere
Dott. Agrò Antonio Consigliere
Dott. Milo Nicola Consigliere
Dott. Rotundo Vincenzo Consigliere
Ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
1) TOSTI LUIGI n. il 03/08/1948
avverso SENTENZA del 23/05/2007 CORTE DI APPELLO di L’AQUILA

visti gli atti, la sentenza ed il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere MILO NICOLA
udito il P.G. in persona del dr. Vincenzo Geraci, che ha concluso per l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata;
uditi i difensori avv. D. Visconti e avv. Fabio Pierdominici, che hanno concluso per l’accoglimento del ricorso.

FATTO

1- La Corte d'Appello di L'Aquila, con sentenza 23/5/2007, confermava quella in data 18/11/2005 del locale Tribunale, che aveva dichiarato Luigi Tosti colpevole del reato di cui agli art. 81 cpv. e 328/1 c.p., condannandolo a pena ritenuta di giustizia, perché, quale giudice presso il Tribunale di Camerino, si era indebitamente astenuto, nel periodo compreso tra il 9 maggio e il 4 luglio 2005, dalle udienze (n. 15) in cui avrebbe dovuto trattare senza ritardo per ragioni di giustizia procedimenti a lui assegnati ed aveva motivato tale sua decisione con l'illegittima presenza nell'aula d'udienza del "crocifisso", simbolo della cristianità, che si poneva in contraddizione con il principio costituzionale della «libertà di religione e di coscienza" e mortificava le esigenze di "neutralità" e "imparzialità” che dovevano, invece, essere garantite in forza dell'altro principio costituzionale di laicità dello Stato.
La Corte territoriale escludeva, in via preliminare, la nullità del giudizio per essersi l'imputato, regolarmente comparso in udienza, allontanato dalla stessa a causa dell'ostensione del crocifisso nell'aula. Rilevava, al riguardo, che la comparizione iniziale dell'imputato aveva reso operativa la norma di cui al secondo comma dell'art. 420 quinquies c.p.p., in forza della quale il successivo allontanamento, in quanto determinato da una consapevole e libera scelta e non da un effettivo impedimento, non aveva inciso sulla regolare partecipazione al processo dell'imputato, da considerarsi presente e rappresentato dal difensore.
Sul merito della vicenda il Giudice distrettuale osservava:
a-) non sussistevano i presupposti applicativi dell'invocata esimente della legittima difesa, in quanto il rifiuto del Tosti di esercitare -nella denunciata situazione logistica- le funzioni di magistrato per evitare di subire una discriminazione religiosa da parte dell' Amministrazione della Giustizia non era assistito dal requisito della "necessariatà della reazione", nel senso che, in alternativa all'esasperata forma di autotutela prescelta, erano praticabili altri mezzi legali, altrettanto efficaci, a salvaguardia della denunziata lesione della "libertà di coscienza", mezzi peraltro già attivati dal Tosti, che aveva proposto ricorso al TAR delle Marche per la rimozione del crocifisso dalle aule giudiziarie ed era in attesa della relativa decisione;
b-) il rifiuto di adempiere i propri doveri d'ufficio da parte del Tosti, inserito in un rapporto di pubblico impiego volontariamente accettato e altrettanto volontariamente mantenuto in vita per sua libera scelta, certamente era stato indebito, perché aveva sacrificato le esigenze di giustizia a vantaggio della propria libertà di coscienza, esercitata secondo modalità che l'ordinamento non contempla e che solo la legge potrebbe prevedere e consentire; nella valutazione comparativa tra beni di rango costituzionale in gioco, il pregiudizio alla libertà di coscienza, per la presenza del crocifisso nella sede di lavoro, non poteva che cedere il passo «all'indeclinabile e primaria realizzazione dell'esigenza di giustizia", interesse quest'ultimo di ordine generale sul cui rilevo costituzionale ex art. 54/2 e 107 Cost non era lecito nutrire dubbi; l'ordinamento, inoltre, non contemplava per il magistrato situazioni che rendessero legittima l'astensione dall'attività giurisdizionale. salve le ipotesi disciplinate dagli art. 51 e 52 c.p.c. e quelle di cui agli art. 36 e 37 C.p.p.;
c-) ad avallare tale conclusione soccorrevano le argomentazioni sviluppate nell'ordinnza 31/1/2006 della sezione disciplinare del C.S.M., che aveva - in via cautelare - sospeso dalle funzioni e dallo stipendio l'imputato, nonché in diverse pronunce della Corte Costituzionale, che venivano espressamente richiamate: la n. 100 del 1981 (sulla peculiarità delle funzioni esercitate dai magistrati), la n. 149 del 1995 (sul bilanciamento della libertà di coscienza con contrastanti doveri o beni di rilievo costituzionale), la n. 196 del 1987 (sull'inesistenza del diritto all'obiezione di coscienza del giudice tutelare, investito dalla richiesta di autorizzare una minore a interrompere la gravidanza senza l'assenso dei genitori);
d-) era solo il collegamento tra il comportamento di rifiuto e la posizione istituzionale del magistrato ad assumere rilievo nella verifica di fondatezza dell' accusa contestata e ciò a prescindere dalla prospettata illegittimità o abrogazione delle norme sull' esposizione del crocifisso negli uffici pubblici, questione estranea al rapporto di servizio e che aveva trovato soluzioni non univoche sia in giurisprudenza che in dottrina e in ordine alla quale si riteneva di non dovere prendere posizione (secondo l'imputato. la circolare 29/5/1926 del Ministro di Grazia e Giustizia che imponeva l'ostensione del crocifisso nelle aule d'udienza doveva ritenersi illegittima. perché tacitamente abrogata a norma dell'art. 15 delle disposizioni preliminari al codice civile dopo l'entrata in vigore della Costituzione, che agli art. 8, 9, 21 garantisce la pari dignità di tutte le confessioni religiose e il superamento della religione cattolica come religione dello Stato, e dopo la revisione del Concordato, resa esecutiva con legge 25/5/1985 n. 121)
e-) la soluzione privilegiata non contrastava con i principi affermati dalla sentenza n. 4273 del 2000 della quarta sezione penale di questa Suprema Cassazione (ric. Montagnara), che aveva affrontato il diverso caso del rifiuto dell'ufficio di scrutatore ed aveva ravvisato nella manifestazione della libertà di coscienza di costui il giustificato motivo del rifiuto, e ciò perché trattavasi di ufficio non liberamente scelto ma imposto e perché l'art. 108 del dpr n. 361/57 prevedeva la possibilità di sottrarsi a tale munus publicum per "giustificato motivo";
f-) sul piano soggettivo l'imputato aveva avuto piena coscienza e consapevolezza dell'illiceità della propria condotta, avendo persistito nel rifiuto di celebrare le udienze, nonostante gli fosse stata offerta la possibilità, in via temporanea ed in attesa della decisione sull'azione legale da lui promossa in relazione alla questione controversa, di tenere udienza in un'aula priva del crocifisso e fruibile da tutti i magistrati dell'Ufficio;
g-) la circostanza che, nel caso concreto, il Tosti era stato sostituito da altri colleghi, che avevano in sua vece tenuto regolarmente le udienze, non escludeva il delitto contestato, che, in quanto reato di pericolo incidente sul buon andamento della Pubblica Amministrazione, prescindeva dall’esito prodotto dal rifiuto;
h-) non ricorrevano i presupposti per accordare la sollecitata attenuante di cui all' art. 62 n. 1 c.p., in quanto la forma di autotutela posta in essere dal prevenuto, sul quale gravava l'obbligo istituzionale di garantire il rispetto e l'applicazione della legge nelle forme e nei modi apprestati dall'ordinamento, non riscuoteva il generale consenso della collettività;
i-) l'applicazione della pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici conseguiva ope legis, a norma dell'art. 31 c.p .
2- Ha proposto ricorso per cassazione l'imputato con due distinti atti, uno a sottoscrizione personale e un altro a firma del proprio difensore di fiducia, entrambi articolati su motivi sostanzialmente identici, che possono essere sintetizzati nei termini di seguito precisati .
** Nullità del giudizio d'appello per violazione delle norme concernenti l'intervento e la presenza dell'imputato in dibattimento (artt. 420 ter, 420 quater, 420 quinquies, 178 lett. c e 586 c.p.p.): illegittimamente la Corte di merito aveva ritenuto volontario l'allontanamento dall'aula d'udienza dell'imputato regolarmente comparso e quindi operativa la disposizione di cui all'art. 420 quinquies/2° c.p.p.; non aveva dato alcun rilievo ai motivi che avevano determinato tale allontanamento, da lui individuati nella necessità di non subire la lesione, per la presenza del crocifisso nell'aula d'udienza, del diritto inviolabile della libertà di coscienza e di religione; il Giudice distrettuale avrebbe dovuto ritenere che ciò integrava un "legittimo impedimento a presenziare", con conseguente applicazione del principio desumibile dalla norma di cui all'art. 420 ter/3° c.p.p., che imponeva il rinvio del processo.
** Erronea applicazione dell'art. 52 c.p. in relazione alla prospettata scriminante della legittima difesa. Il rifiuto a non tenere le udienze era stato una legittima reazione all'atto di discriminazione religiosa perpetrato in di lui danno da parte del Ministro della Giustizia, che aveva imposto la presenza nelle aule d'udienza del crocifisso e negato l'autorizzazione alla contestuale presenza della menorah ebraica, simbolo della confessione religiosa alla quale egli aderiva. Di fronte al pericolo attuale di un' offesa ingiusta, legittima doveva ritenersi la forma dì autotutela per eccellenza prevista dall'art. 52 C.p., prescindendo dall'onere di percorrere strade alternative. L'ipotizzata condotta omissiva aveva avuto la sola finalità di evitare che diritti primari ed inviolabili venissero lesi dalla presenza del crocifisso. simbolo in contraddizione con la laicità della Stato e con i principi della libertà di coscienza, della libertà e dell'uguaglianza religiosa.
** Erronea applicazione dell'art. 328/1 ° c.p., sotto il profilo che il rifiuto dell'atto d'ufficio (astensione dalle udienze) non poteva ritenersi indebito, perché il compimento dell'atto avrebbe determinato la lesione del principio di laicità dello Stato e dei diritti costituzionali alla libertà di religione e all'uguaglianza, sicché era estensibile al caso in esame quanto statuito dalla quarta sezione penale di questa Suprema Corte con la sentenza "Montagnana" (n. 4273 dell' 1/3/2000), il cui reale significato era stato travisato. La circolare del Ministro di Grazia e Giustizia del 29/5/1926 n. 2134/1867, che imponeva l'esposizione del crocifisso quale "simbolo venerato" e "solenne ammonimento di verità e giustizia", doveva ritenersi tacitamente abrogata a norma dell'art. 15 delle preleggi per contrasto con i citati principi costituzionali e con quello della imparzialità del giudice, prescritto dall'art. 111 della Costituzione e dall'art. 6 della C.E.D.D.
** Inosservanza ed erronea applicazione degli art. 1/1°, 2, 3, 4/2°, 8, 19, 21, 54, 97, 98, 101, 104, 111 Cost., 1, 6, 9, 13, 14, 17 C.E.D.D., 2934, 2968 c.c . Si era fatta confusione tra i concetti di "libertà di coscienza" e "obiezione di coscienza". Il diritto di libertà di coscienza è inviolabile. trova riconoscimento diretto nella Costituzione e nella Convenzione sui diritti dell'uomo, non può subire limitazioni, violazioni o deroghe superiori a quelle previste in tali fonti né soggiacere, in caso di conflitto con altri valori primari, ad un bilanciamento che determini restrizioni superiori a quelle consentite; non può diventare recessivo di fronte ai doveri che nascono dal rapporto di pubblico impiego e sanciti dal comma secondo dell'art. 54 Cost, con l'effetto che è insita in tale diritto inviolabile la "facoltà di rifiutarsi di compiere atti doverosi", stante la "necessità" di evitare la lesione dello stesso diritto, la quale ineluttabilmente conseguirebbe all'adempimento dell'attività doverosa.
L'obiezione di coscienza non è contemplata da alcuna norma come diritto fondamentale e concretizza in un rifiuto di attività doverose, motivato dal conflitto interiore con contrastanti imperativi ideologici o religiosi. L'obiezione di coscienza di per sè non scrimina, potendo assurgere a dignità di diritto soltanto se riconosciuta come tale dal legislatore.
La Corte di merito, facendo leva, per supportare il proprio discorso giustificativo, sulle sentenze della Corte Costituzionale n. 100/'81, n. 149/'95 e n. 196/'87, ne aveva travisato il significato per adattarlo alle esigenze motivazionali della propria decisione.
La libertà di coscienza, in sostanza, si risolve in una scriminante, cioè nel diritto di rifiutarsi di obbedire a norme illegittime che determinano la lesione di diritti fondamentali.
Non è necessaria una espressa previsione dì legge per giustificare il rifiuto di atti doverosi, se tale rifiuto è funzionale a scongiurare la lesione di diritti fondamentali.
La volontarietà dell'instaurazione e del mantenimento del rapporto d'impiego che lega il magistrato all'Amministrazione non limita la portata e l'esercizio dei diritti inviolabili dell'uomo, che sono irrinunciabili, indisponibili, imprescrittibili e non assoggettabili a decadenza.
La reazione alla violazione di diritti primari non può essere subordinata al previo esperimento di altri rimedi legali e all' esito favorevole degli stessi, perché ciò comporterebbe comunque, nelle more, la lesione irreparabile dei detti diritti.
** Inosservanza ed erronea applicazione degli art. 97, 101 Cost., 3, 14 legge n. 654/'75 (ratifica Convenzione di New York 7/3/1966), 328/1 C.p., per avere qualificato come indebito il rifiuto in considerazione del fatto che all'imputato era stata data anche l'opportunità di tenere le udienze in un'aula priva del segno confessionale in contestazione. Tale iniziativa rappresentava una manifestazione di ghettizzazione e di discriminazione religiosa, era contra legem per la ritenuta vigenza della circolare ministeriale che imponeva il detto simbolo, non risolveva il problema di principio posto in via generale.
** Manifesta contraddittorietà ed illogicità della motivazione sotto il profilo che, per un verso, si era ritenuto indebito il rifiuto di tenere udienza anche nell' aula appositamente allestita senza crocifisso e, per altro verso, si era affermata la responsabilità per episodi di rifiuto risalenti ad epoca precedente alla fruizione di tale aula.
** Erronea applicazione degli art. 2934,2968 c.c., 19,21 Cost., 9 legge n. 848/'55, 328/1 C.p. e vizio di motivazione sulla ritenuta natura indebita del rifiuto, desunta dalla tardività con cui lo stesso era stato opposto. La circostanza che, per un lungo periodo della propria attività di magistrato, l'imputato aveva tollerato la presenza del crocifisso sul luogo di lavoro non poteva avere alcuna incidenza paralizzante sull'iniziativa successivamente assunta, considerato che i diritti della personalità, tra i quali rientra la libertà religiosa, sono imprescrittibili e non sono soggetti a decadenza o rinuncia per acquiescenza.
** Contraddittorietà della motivazione nella parte in cui ancorava la natura indebita del rifiuto alla mancata adozione del rimedio dell'aspettativa facoltativa.
** Inosservanza ed erronea applicazione de1l'art. 328/1 c.p., sotto il profilo che nessun atto d'ufficio era stato. in concreto. rifiutato, avendo egli preventivamente e tempestivamente comunicato al capo dell'Ufficio la decisione di astenersi - per la nota ragione - dalle udienze ed essendosi conseguentemente provveduto alla sua sostituzione, tanto che tutte le udienze di cui al capo d'imputazione erano stare regolarmente tenute da altro magistrato. La tutela penale apprestata dall'art. 328/1 c.p. non riguarda la P.A. nel momento statico della sua organizzazione, ma in quello dinamico del compimento dell'atto d'ufficio (S.U. 25/5/1985, Candus), con l'effetto che, essendo stata comunque garantita, attraverso l'organizzazione interna all' Amministrazione, la risposta di giustizia, difettava la stessa materialità del delitto contestato.
** Erronea applicazione dell' art. 62 n. 1 c. p.
2a - In data 27/10/2008, è stata depositata memoria difensiva, con la quale si sono ripresi alcuni dei motivi di ricorso ritenuti più meritevoli di attenzione e si sono ribadite e ulteriormente illustrate le ragioni poste a fondamento dei medesimi.
Con istanza fatta pervenire il 6/2/2009, il difensore dell'imputato ha sollecitato il rinvio della trattazione del ricorso, invitando questa Corte ad attivarsi preventivamente presso il Ministro della Giustizia per la revoca della circolare del 1926 e la conseguente rimozione del simbolo confessionale dalle aule di giustizia e facendo presente che, in caso contrario, l'imputato avrebbe rifiutato di difendersi dinanzi a questa Corte ed avrebbe revocato la nomina ai suoi difensori di fiducia.
3- All’odierna udienza pubblica, le parti hanno concluso come da epigrafe.
DIRITTO
1- Il ricorso è fondato e va accolto per le ragioni di seguito precisate.
2- Rileva preliminarmente la Corte che l'odierna udienza si è svolta in aula priva del simbolo confessionale e l'imputato, tramite i propri difensori, ai quali non ha revocato - come preannunciato - il mandato fiduciario, ha avuto modo di esercitare efficacemente e senza alcun condizionamento il diritto di difesa.
3- La tesi sostenuta dall'imputato nel corso dell'intero iter processuale e posta al centro della sua difesa e, quindi, anche del ricorso per cassazione introduce certamente una problematica di estrema delicatezza, quella cioè dell'esposizione dei simboli religiosi nei luoghi pubblici, vivacemente dibattuta non solo in Italia ma anche in altri Paesi dell'Unione Europea con soluzioni diverse a livello giurisprudenziale e normativo.
In Italia, in particolare, il problema si è posto con riferimento all’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche e nei seggi elettorali e ha avuto approdi interpretativi contrastanti.
In relazione al primo aspetto, il Consiglio di Stato, con parere del 27/4/1988, ha affermato che l'art. 118 del r.d. n. 965/1924 e l'allegato C al r.d. n. 1297/1928, che prevedono l'esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche, sono tuttora in vigore. In senso contrario si è espresso il Tribunale dì L'Aquila (ordinanza 23/10/2003), che ha ritenuto tacitamente abrogate le dette disposizioni regolamentari perché incompatibili con le garanzie costituzionali del pluralismo religioso, della libertà di coscienza e di religione e con l'abbandono del principio della religione cattolica come religione di Stato (cfr. legge n. 121/'85, che dà esecuzione al protocollo addizionale agli accordi di modifica del Concordato lateranense); tale provvedimento, però, è stato revocato in data 29/11/2003 dallo stesso Tribunale, a seguito di reclamo, per difetto di giurisdizione. Il TAR del Veneto, con sentenza del 22/3/2005, ha ritenuto legittima l'esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche, in quanto "simbolo di una particolare storia, cultura e identità nazionale ... espressione di alcuni principi laici della comunità”; ad identica conclusione è pervenuto il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 556 del 2006.
In relazione al secondo aspetto, la sentenza 1/3/2000 della quarta sezione di questa Suprema Corte (ric. Montagnana) ha ritenuto giustificato motivo di rifiuto dell'ufficio di presidente, scrutatore o segretario del seggio elettorale la presenza nel locale a ciò destinato del crocifisso o di altre immagini religiose, che possano determinare un conflitto tra la personale adesione al principio di laicità dello Stato e l'adempimento del munus publicum. Sul punto, ad opposta soluzione sono pervenuti altri provvedimenti di giudici di merito, che hanno disatteso le richieste di rimozione (cfr. Tribunale Bologna 24/3/2005; Tribunale L'Aquila 31/3/2005; Tribunale Napoli 26/3/2005).
La tesi sostenuta dall'imputato, al di là dei toni esasperati e delle espressioni talvolta paradossali che la caratterizzano e che ne rivelano la chiara strumentalità, ha una sua sostanziale dignità e meriterebbe un adeguato approfondimento, per verificarne la fondatezza o meno, considerato che, allo stato, non risultano essere state congruamente affrontate e risolte alcune tematiche di primario rilievo per la corretta soluzione del problema: a) la circolare del Ministro di Grazia e Giustizia del 29/5/1926 è un atto amministrativo generale, che appare però privo di fondamento normativo e quindi in contrasto con il principio di legalità dell' azione amministrativa (artt. 97 e 113 Cost.); b) detta circolare, tenuto conto anche dell'epoca a cui risale, non sembra essere in linea con il principio costituzionale di laicità dello Stato e con la garanzia, pure costituzionalmente presidiata, della libertà di coscienza e di religione; c) occorre individuare l'eventuale sussistenza di una effettiva interazione tra il significato, inteso come valore identitario, della presenza del crocifisso nelle aule di giustizia e la libertà di coscienza e di religione, intesa non solo in senso positivo, come tutela della fede professata dal credente, ma anche in senso negativo, come tutela del credente di fede diversa e del non credente che rifiuta di avere una fede.
Non ritiene, tuttavia, la Corte di dovere affrontare, in questa sede, tale problematica (e gli ulteriori aspetti ad essa connessi) per l'assorbente e dirimente rilievo che la stessa non è funzionale alla soluzione del caso in esame, che non integra, per quanto si dirà al punto che segue, l'ipotizzata fattispecie delittuosa del rifiuto di atti d'ufficio.
La contestazione della legittimità dell'affissione del crocifisso nelle aule di giustizia, avvenuta sulla base di una circolare ministeriale non assistita da una espressa previsione di legge impositiva del relativo obbligo, implica - tra l'altro - un problema di carattere generale, che può essere fatto valere sollecitando la Pubblica Amministrazione a rivedere la propria scelta dell'arredo delle dette aule e, in caso di esito negativo, adendo il giudice amministrativo, che ha giurisdizione esclusiva al riguardo, ai sensi dell'art. 33 del d.lgs. n. 80/1998, vertendosì in tema di contestazione della legittimità dell'esercizio del potere amministrativo (cfr. Cass. S.U. civili 1017/2006 ord. n. 15614; Cons. St. sent. n. 556/2006).
4- La sollecitata verifica di legittimità del formulato giudizio di colpevolezza non può prescindere dal dato fattuale accertato in sede di merito: il giudice Tosti, dopo avere vista disattesa la sua richiesta di rimozione del crocifisso dalle aule, aveva preannunciato la sua decisione di astenersi dalle udienze, cosa che in concreto aveva fatto nell'arco temporale indicato nel capo d'imputazione; il Presidente del Tribunale di Camerino, però, informato tempestivamente della scelta del Tosti, aveva provveduto a sostituirlo con altri magistrati, che si erano alternati nella trattazione dei processi fissati nelle udienze che avrebbe dovuto tenere il medesimo Tosti, sicché l'attività giudiziaria si era ugualmente svolta.
Ciò posto, osserva la Corte che non sono ravvisabili in tale situazione gli estremi materiali del rifiuto di atti d'ufficio.
La norma di cui all'art. 328/1 c.p., infatti, tutela in senso lato il buon andamento e il normale funzionamento della Pubblica Amministrazione per la realizzazione dei suoi fini istituzionali. Il semplice inadempimento di un dovere funzionale non assume rilevanza penale se non fa venire meno anche i risultati verso cui è proiettata la Pubblica Amministrazione per il soddisfacimento dei pubblici interessi. Il vero ed unico disvalore represso dalla norma è la mancanza dell'atto d'ufficio a rilevanza esterna. Le inadempienze interne all' organizzazione, integranti la violazione di meri doveri di servizio che non si riflettono all'esterno, possono trovare risposta soltanto sul piano disciplinare.
Ciò che viene in rilievo è il prodotto dinamico dell'organizzazione amministrativa, ossia l'attività che la P.A., impersonalmente intesa, svolge entrando in contatto con i destinatari della sua azione e regolando le reciproche situazioni soggettive attraverso il soddisfacimento dei bisogni pubblici e privati.
La tutela penale apprestata dal vigente art. 328/1 c.p., aderendo alla teoria sostanzialistica e con inversione di tendenza rispetto alla più ampia area d'intervento prevista dal previgente testo della citata norma, che sanzionava qualsiasi inadempienza dell'agente ai propri doveri funzionali, senza distinzione alcuna tra atti aventi rilevanza "interna" o "esterna", non riguarda la P.A. nel suo momento statico, ma in quello dinamico del compimento dell'atto d'ufficio, vale a dire nel momento della sua concreta operatività. Il legislatore, con riferimento alla previsione dì cui al primo comma dell'art. 328 c.p., ha inteso e voluto apprestare una tutela per i beni giuridici finali elencati nella disposizione medesima, concepita come delitto di pericolo concreto, ed incarnati dagli interessi collettivi della giustizia. sicurezza pubblica, ordine pubblico, igiene e sanità.
E' il caso di sottolineare che, già nel vigore del vecchio testo dell'art. 328 c.p., la giurisprudenza più autorevole, in verità, quasi anticipando lo spirito della riforma del 1990 (legge n. 86), aveva in buona parte arginato i possibili rischi connessi ad un'interpretazione "formalistica" della norma, privilegiando una lettura "sostanzialistica" e sistematica della medesima. Con la sentenza 25/5/1985 (ric. Candus), infatti, le Sezioni Unite di questa Suprema Corte avevano precisato: a) l'omissione dolosa del funzionario offendeva "l'interesse della Pubblica Amministrazione all'emanazione dell'atto cui essa era tenuta, cioè al raggiungimento di un risultato che invece [era] mancato, costituendola inadempiente rispetto ad un dovere giuridico imposto dall'ordinamento"; b) il presidio penale quindi andava ad incidere non sulla violazione di "un generico dovere di fedeltà e di zelo" ma sulla concretezza dell' attività della P .A. (aspetto dinamico); c) la distinzione tra momento statico organizzativo e momento dinamico dell'attività amministrativa emergeva chiaramente dal raffronto dell'art. 328 con l'art. 333 c.p.; norma quest'ultima (oggi abrogata per effetto dell'art. 11 della legge n. 146/'90) che, disciplinando l'abbandono individuale dì un pubblico ufficio, incideva "direttamente - e soltanto - sull'assetto organizzativo della Pubblica Amministrazione.
La condotta addebitata al Tosti si è concretizzata nella violazione di doveri funzionali, riverberatasi esclusivamente, come la stessa sentenza impugnata riconosce, sull'organizzazione interna dell'ufficio e non sull'attività di rilevanza esterna, diretta a garantire il servizio giustizia.
Né vale evocare, come fa la sentenza in verifica, la circostanza che il rifiuto di atti d'ufficio è reato di pericolo, per inferirne che deve prescindersi dal concreto esito determinato dal rifiuto. Rileva, al riguardo, la Corte che l'idoneità potenziale della condotta incriminata a produrre un danno, senza che sia necessaria la causazione effettiva dello stesso, va apprezzata in relazione soltanto alla posizione che l'Amministrazione assume verso l'esterno per la realizzazione dei suoi fini istituzionali. Non va sottaciuto, inoltre, che l'oggetto del rifiuto della fattispecie incriminatrice postula due imprescindibili condizioni: a) l'atto d'ufficio deve essere "qualificato", deve cioè rientrare in una delle materie tipiche previste dalla norma, nella specie atto correlato a "ragioni di giustizia"; b) deve trattarsi di atto da compiersi senza ritardo. In relazione al primo aspetto, il caso in esame non pone alcun particolare problema interpretativo.
Quanto al secondo requisito, deve trattarsi di atto indifferibile, destinato a fronteggiare, al di là del primario interesse insito nel1a sua particolare qualificazione, un'emergenza di natura oggettiva, rappresentativa di una sostanziale urgenza. che verrebbe vanificata dal diniego dell'atto dovuto. Ciò posto, l'astensione del Tosti dal tenere personalmente alcune udienze per la trattazione di cause a lui assegnate non integra il rifiuto di atti d'ufficio che per ragioni di giustizia dovevano essere compiuti "senza ritardo", non emergendo elementi indicativi della indifferibilità di tali udienze, che, peraltro. come sopra si è precisato, erano state regolarmente tenute, rispettando il calendario programmato, da altri magistrati, designati a sostituire il Tosti.
5- Difettando, pertanto, la materialità del reato ipotizzato, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio, perché il fatto non sussiste.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché iI fatto non sussiste.
Così deciso in Roma il 17/2/2009.
Il Consigliere estensore Il Presidente
dr. Milo Nicola dr. Lattanzi Giorgio
Depositato in cancelleria il 10 luglio 2009