giovedì 26 settembre 2013

IL CROCIFISSO NEI TRIBUNALI: ATTESA LA PRONUNCIA DEL CONSIGLIO DI STATO (di Luigi Tosti)

 

Il prossimo martedì 8 ottobre la quarta Sezione del Consiglio di Stato, presieduta dal dott. Giorgio Giaccardi (Giudice relatrice la dott.ssa Francesca Quadri) si pronuncerà sul ricorso attivato nel lontano 2004 dall'ex giudice di Camerino Luigi Tosti per ottenere la rimozione dei crocifissi da tutti i tribunali italiani. Il Tribunale Amministrativo delle Marche aveva eluso, nel 2006, qualsiasi decisione nel merito, dichiarando il proprio difetto di giurisdizione. A distanza di 10 anni il Consiglio di Stato si dovrà pronunciare sull'appello proposto da Tosti Luigi, e cioè stabilire se il ricorso dovrà essere esaminato dal giudice del lavoro oppure -come sostenuto dal Tosti- dallo stesso TAR di Ancona. Nel frattempo la "Giustizia" non è stata altrettanto lenta nei confronti dell'ex giudice che, nell'arco di 7 anni, ha dovuto subire due processi penali -con ben sette gradi di giudizio- due procedimenti disciplinari con altri ben 5 gradi di giudizio e, altresì, la rimozione dall'ordine giudiziario.
Qui di seguito si riporta il testo della memoria che è stata presentata dal difensore del Tosti, l'Avv. Fabio Pierdominici di Camerino, per la discussione che si terrà l'8 ottobre 2013, ore 10, davanti alla quarta Sezione del Consiglio di Stato a Roma (Palazzo Spada).
 
 


CONSIGLIO DI STATO IN SEDE GIURISDIZIONALE - IV SEZIONE

Memoria per l’udienza di discussione dell’8.10.2013

per:

Luigi Tosti, difeso dal sottoscritto Avv. Fabio Pierdominici

parte appellante
avverso la sentenza del T.A.R. delle Marche n. 94/2006 del 21.12.2005, depositata il 22.3.2006.
 
La difesa del dr. Luigi Tosti, richiamati i motivi di gravame, illustra i seguenti punti di rilievo.
PRIMO PUNTO.
In primo luogo si premette che il ricorso per la rimozione dei crocifissi dalle aule di giustizia avrebbe potuto essere deciso, nel merito, in tempi rapidissimi: esso non presenta infatti problematiche giuridiche di particolare complessità.
E’ infatti pacifico che la circolare del Ministro Rocco del 29.5.1926 è stata “disapplicata” -sin dal 1948- per ciò che concerne l’esposizione nelle aule di giustizia dell’ “effige di Sua Maestà il Re”: l’obbligo di esposizione del ritratto del Re è da ritenere infatti tacitamente abrogato, ex art. 15 delle disposizioni preliminari del cod. civile, perché incompatibile con l’art. 1 della Carta Costituzionale del 1948 che sancisce che “l’Italia è una Repubblica democratica”, e non più una Monarchia. Alla stessa stregua, pertanto, la circolare doveva essere disapplicata -sin dal 1948- per ciò che concerne l’obbligo di esporre il crocifisso nelle aule di giustizia, posto che:
1.                  Italia non è più uno Stato confessionale ma uno Stato laico che, come si desume dagli articoli 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione, deve essere neutrale, imparziale ed equidistante in materia religiosa nei confronti dei singoli cittadini e delle confessioni religiose, sicché l’esposizione di un simbolo confessionale nelle aule di giustizia è incompatibile col rispetto del pluralismo religioso e del canone dell’eguaglianza e pari dignità di tutte le ideologie religiose, senza alcuna discriminazione e/o privilegio a discapito o a favore di una o più di una di esse;
2.                  l’obbligo di esercitare l’attività giurisdizionale sotto la tutela simbolica del crocifisso (o di altro simbolo partigiano) è parimenti incompatibile con l’obbligo di “imparzialità” dei giudici, che l’art. 111 della Costituzione commina anche sotto il profilo della mera apparenza;
3.                  la circolare del ministro della giustizia del 29 maggio 1926 n. 2134/1867 è un atto amministrativo generale, che appare però privo di fondamento normativo e quindi incompatibile con il principio di legalità dell'azione amministrativa (artt. 97 e 113 Cost.), che comporta che ogni atto amministrativo deve essere espressione di un potere riconosciuto all’amministrazione da una norma;
4.                  l’imposizione dell’obbligo di “condividere” un simbolo religioso -e addirittura di esercitare l’attività giurisdizionale sotto la sua tutela simbolica- viola poi il diritto di libertà religiosa del dipendente che è costretto a subirlo e, quindi, è incompatibile col diritto di libertà religiosa garantito dall’art. 19 della Costituzione;
5.                  infine, l’imposizione di un SOLO simbolo religioso -col divieto cioè di esporre altri simboli- è incompatibile col rispetto del diritto all’eguaglianza e non discriminazione, che è sancito dall’art. 3 della Costituzione.
            Alla luce di queste banali considerazioni, [1] l’istanza di rimozione dei crocifissi avrebbe potuto essere decisa in un attimo, facendo corretta applicazione dello stesso identico principio della “tacita abrogazione” per incompatibilità della circolare con le nuove norme costituzionali (art. 15 preleggi) che è stato utilizzato per rimuovere le “effigi del Re” dalle aule di giustizia: purtroppo il TAR delle Marche ha dichiarato il difetto di giurisdizione e la decisione del merito -a distanza di più di nove anni- non è ancora arrivata.
SECONDO PUNTO.
In secondo luogo si rappresenta che a causa del rifiuto di tenere le udienze sotto l’imposizione del crocifisso (che il Tosti ha posto in essere dal maggio 2005 dopo che la sua istanza cautelare di rimozione dei crocifissi non è stata accolta dal TAR) l’appellante è stato sottoposto a due procedimenti penali e ad un procedimento disciplinare, i cui esiti hanno, ad avviso del difensore, un rilievo nel presente giudizio.
A) Il primo procedimento penale è sfociato con una condanna a sette mesi di reclusione inflitta dal tribunale di L’Aquila per il reato di omissione di atti di ufficio con sentenza del 18 novembre 2005, poi confermata dalla Corte di appello. Tuttavia, la VI Sezione penale della Corte di cassazione ha assolto Luigi Tosti con la formula “il fatto non sussiste” con sentenza 17 febbraio 2009 n. 28482, che si produce in questa fase di giudizio sub doc. n. 1.
Sebbene non sia vincolante per il Giudice Amministrativo, si segnala che la Corte di Cassazione penale ha sostanzialmente condiviso la tesi del ricorrente, affermando che l’esposizione del crocifisso non pare compatibile né col principio di legalità dell’azione amministrativa, né col principio supremo di laicità né, infine, col rispetto dei diritti di libertà religiosa e di coscienza del dipendente. La Corte ha addirittura auspicato che il Ministro di giustizia “riveda la propria scelta di arredare le aule con i crocifissi” ed ha suggerito, in caso contrario, la proposizione di un ricorso giurisdizionale al giudice amministrativo, la cui piena giurisdizione ha confermato, richiamando l’ordinanza n. 15.614/2006 delle SS.UU. civili della Cassazione e la sentenza n. 556/2006 del Consiglio di Stato,[2] in aperto dissenso con quanto statuito dal TAR delle Marche nell’impugnata sentenza.
B) Luigi Tosti è stato sottoposto anche ad un parallelo procedimento disciplinare, nel quale gli è stato mosso l’addebito di “avere, esasperando fino al limite della pretestuosità la pretesa di veder rimosso, ad opera della amministrazione dello Stato, da tutte le aule di giustizia, il crocifisso o, in alternativa, di esporre nelle medesime anche il simbolo della menorà della religione ebraica, omesso, sin dai primi giorni del maggio 2005, di svolgere la propria attività di magistrato presso il tribunale di Camerino, così sottraendosi alla doverosa prestazione del proprio servizio, che scaturiva da un rapporto di impiego sorto e tuttora in corso per sua libera determinazione; e tanto anche dopo che il Presidente del Tribunale gli aveva messo a disposizione un’aula di udienza priva di ogni simbolo religioso”.
Con delibera del 31 gennaio 2006, depositata il 23 novembre 2006 (che si produce sub doc. n. 2), la Sezione disciplinare del CSM, pur ritenendo fondata la richiesta del Tosti di rimozione dei crocifissi, ne ha disposto la sospensione cautelare dalle funzioni e dallo stipendio.
Per qual che qui rileva, si segnala che il CSM ha affermato (al pari di quanto farà nel 2009 la Cassazione penale) che l’esposizione del crocifisso, siccome disposta in base ad una semplice circolare priva di fondamento legislativo, viola il principio di legalità dell’azione amministrativa, sancito dagli articoli 97 e 113 della Costituzione italiana, viola il principio supremo di laicità, desumibile dagli artt. 2,3,7,8,19 e 20 Cost., e viola infine la garanzia della libertà di coscienza e di religione del magistrato (art. 19 Cost.). Ha tuttavia disposto la sospensione cautelare del magistrato perché ha escluso che potesse “autotutelare” i suoi diritti inviolabili col rifiuto di tenere le udienze, ritenendo applicabili al suo caso i principi sanciti dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 196/1987, relativa al caso di un giudice tutelare che, per “obiezione di coscienza” legata ai suoi convincimenti religiosi, pretendeva di “rifiutarsi” di autorizzare una minorenne ad abortire.
Così si è espresso il CSM:
la sezione disciplinare ritiene che la richiesta di rimozione del crocifisso dalle aule d’udienza avanzata dal dott. Tosti non sia manifestamente infondata.
            Si deve in primo luogo rilevare che, come è pacifico (si veda in proposito la nota del ministero degli interni del 5 ottobre 1984, n. 5160/M/l, citata da cass. 1° marzo 2000), la circolare del ministro della giustizia del 29 maggio 1926 n. 2134/1867 è un atto amministrativo generale, privo di fondamento normativo e quindi contrastante con il principio di legalità dell’azione amministrativa, desumibile dagli articoli 97 e 113 Cost., dal quale deriva che l’attività della pubblica amministrazione deve sempre svolgersi nel rispetto della Costituzione, delle norme comunitarie e delle leggi, con l’ulteriore conseguenza che ogni atto amministrativo deve essere espressione di un potere riconosciuto all’amministrazione da una norma (Cons. Stato, sez. II, 3 novembre 1999, n. 1401; sez. VI, 17 febbraio 1999, n. 173; sez. V, 8 giugno 1994, n. 614; sez. VI, 3 marzo 1993, n. 214). In conformità con questo principio il legislatore ha disciplinato l’esposizione dei simboli non religiosi nei luoghi pubblici (legge 5 febbraio 1998, n. 22 sull’uso della bandiera della Repubblica italiana e di quella dell’Unione europea; l’art. 38 del d.lgs. n. 267 del 2000, che disciplina la stessa materia con riferimento all’ordinamento degli enti locali).
            In secondo luogo, anche a poter ritenere non decisivo questo profilo, resta poi che la predetta circolare appare in contrasto con il principio costituzionale di laicità dello Stato e con la garanzia della libertà di coscienza e di religione, essendo pacifico (v. in tal senso cass. sez. unite 18 novembre 1997, n. 11432 e sez. disciplinare 15 settembre 2004, Sansa) che nessun provvedimento amministrativo può limitare diritti fondamentali di libertà, al di fuori degli spazi eventualmente consentiti da una legge ordinaria conforme a costituzione.
            Come è noto la corte costituzionale, con sentenza n. 203 del 1989 (nonché con le sentenze n. 259 del 1990 e 195 del 1993), ha affermato che il principio di laicità (o di aconfessionalità) dello Stato, pur non essendo esplicitamente menzionato (come invece avviene nell’art. 1 della Costituzione francese del 1958), è certamente desumibile dagli articoli 2,3,7,8,19 e 20 Cost. e ha trovato un importante conferma, a livello di legge ordinaria, nell’art. 1 del Protocollo addizionale degli Accordi con la Santa sede di cui alla legge n. 121 del 1985 (abrogazione della regola secondo la quale la religione cattolica è la sola religione dello Stato). Tale principio, inoltre, è uno delle caratteristiche della nostra forma di Stato e appartiene al novero dei principi supremi dell’ordinamento che, secondo un costante orientamento della giurisprudenza costituzionale, hanno valenza superiore rispetto alle altre norme o leggi di rango costituzionale.
            Quanto al contenuto del principio di laicità la giurisprudenza costituzionale ha affermato che lo stesso non implica irrilevanza o indifferenza rispetto all’esperienza religiosa, secondo l’impostazione dello Stato liberale classico, ma garanzia per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale e, in senso più ampio, possibilità di convivenza in condizioni uguaglianza non solo di fedi, ma anche di culture e tradizioni diverse (corte cost. n. 440 del 1995). Ne consegue, da un lato, che in materia religiosa, lo Stato deve essere equidistante, imparziale (sentenze nn. 329 del 1997, 508 del 2000, 327 del 2002) e neutrale (sentenza n. 235 del 1997) e, dall’altro, che l’ordine delle questioni religiose e quello delle questioni civili debbono rimanere separati, con la conseguenza che “in nessun caso il compimento di atti appartenenti, nella loro essenza, alla sfera della religione possa essere l’oggetto di prescrizioni obbligatorie derivanti dall’ordinamento giuridico dello Stato e (il) divieto di ricorrere a obbligazioni di ordine religioso per rafforzare l’efficacia dei precetti statali;... la religione e gli obblighi morali che ne derivano non possono essere imposti come mezzo al fine dello Stato” (sentenza n. 334 del 1996).
            Per quanto riguarda la libertà di coscienza - espressamente riconosciuta anche dall’art. 9 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 4 novembre 1950 (ratificata con legge n. 848 del 1955) e dall’art. 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, sottoscritta dai Presidenti del parlamento europeo, del consiglio e della commissione in occasione del Consiglio europeo di Nizza il 7 dicembre 2000 - la corte costituzionale ha ripetutamente affermato (sentenza n. 149/1995, n. 422/1993, n. 467 del 1991, 409 del 1989) che la coscienza individuale ha rilievo costituzionale “quale principio creativo che rende possibile la realtà delle libertà fondamentali dell’uomo” e che “specie se correlata all’espressione dei propri convincimenti morali o filosofici (art. 21 Cost.) ovvero... alla propria fede o credenza religiosa (art. 19 Cost.), dev’essere protetta in misura proporzionata alla priorità assoluta e al carattere fondante ad essa riconosciuta nella scala dei valori espressa dalla Costituzione italiana”. Libertà di coscienza e libertà religiosa che, alla luce del principio di eguaglianza, debbono essere lette come affermazione non solo positiva, di tutela delle convinzioni o della fede professata, ma anche in senso negativo, come tutela di chi rifiuti di avere una fede, e che, pertanto, deve essere garantita sia ai credenti che ai non credenti, siano essi atei o agnostici (sentenza n. 117 del 1979 e n. 334 del 1996). Dal carattere “fondante” della libertà di coscienza deriva anche che nelle valutazioni costituzionali relative ai profili dell’eguaglianza in materia religiosa il dato quantitativo, l’adesione più o meno diffusa a questa o a quella confessione religiosa, non può essere rilevante (sentenza n. 925 del 1988 e n. 440 del 1995, n. 508 del 2000), “il richiamo alla coscienza sociale... è...vietato là dove la Costituzione, nell’art. 3 primo comma stabilisce espressamente il divieto di discipline differenziate in base a determinati elementi distintivi, tra i quali sta per l’appunto la religione...Diversamente ragionando, si finirebbe per rendere cedevole la garanzia costituzionale dell’uguaglianza rispetto a mutevoli e imprevedibili atteggiamenti della società” (sentenza n. 329 del 1997).
            Alla luce dei rilievi ora svolti appare convincente la tesi dell’incolpato secondo la quale l’esposizione del crocifisso nella aule di giustizia, in funzione di solenne “ammonimento di verità e giustizia”, costituisce un’utilizzazione di un simbolo religioso come mezzo per il perseguimento di finalità dello Stato e, pertanto appare in contrasto con il principio supremo di laicità dello Stato. Del pari persuasiva sembra l’affermazione che l’indicazione di un fondamento religioso dei doveri di verità e giustizia ai quali i cittadini sono tenuti, può provocare nei non credenti “turbamenti, casi di coscienza, conflitti di lealtà tra doveri del cittadino e fedeltà alle proprie convinzioni” (corte cost. n. 117 del 1979) e pertanto può ledere la libertà di coscienza e di religione.
            Meno convincente sembra invece l’orientamento che, per negare il rilevato contrasto, nega o quanto meno riduce fortemente il valore del crocifisso come simbolo religioso. In tal senso si sono espressi il citato parere del consiglio di Stato (sezione li, 27 aprile 1988, n. 63) - secondo cui il crocifisso “a parte il significato per i credenti, rappresenta il simbolo della civiltà e della cultura cristiana, nella sua radice storica, come valore universale, indipendente da specifica confessione religiosa” -, l’ordinanza del tribunale dell’Aquila del 31 marzo 2005 - incentrata sul carattere culturale che il crocifisso ormai avrebbe assunto - e la sentenza del t.a.r. del Veneto 22 marzo 2005, n. 1110, la quale, sulla base del rilievo della secolarizzazione della società e della posizione di minoranza assunta dai credenti e praticanti, alla quale si contrapporrebbe la larga adesione ai valori secolarizzati del cristianesimo, ha affermato che “nell’attuale realtà sociale il crocifisso debba essere considerato non solo come simbolo di un ‘evoluzione storica e culturale, e quindi dell’identità del nostro popolo, ma come simbolo altresì di un sistema di valori di libertà, eguaglianza, dignità umana e tolleranza religiosa e quindi anche della laicità dello Stato, principi questi che innervano la nostra Carta costituzionale.”
            A parte il rilievo, efficacemente espresso nella sentenza del Bundesverfassungsgericht 16 maggio 1995, secondo cui costituirebbe “una violazione dell’autonomia confessionale dei cristiani ed una sorta di profanazione della croce non considerare questo simbolo come segno di culto in collegamento con uno specifico credoe l’evidente contraddizione logica tra l’affermazione del valore identitario e quella della portata universale del simbolo, resta il fatto che, anche a poter condividere la tesi del significato meramente culturale del crocifisso, il problema della tutela della libertà di coscienza e del pluralismo si sposterebbe dal terreno esclusivamente religioso a quello appunto culturale, ma non sarebbe risolto, in quanto dai principi costituzionali in precedenza individuati deriva che l’amministrazione pubblica non può scegliere di privilegiare un aspetto della tradizione e della cultura nazionale, sia pure largamente maggioritaria, a discapito di altri minoritari, in contrasto con il progetto costituzionale di una società in cui “hanno da convivere fedi, culture e tradizioni diverse” (Corte cost. n. 440 del 1995).
            Deve infine osservarsi che, anche a ritenere, come questa sezione ritiene, non manifestamente infondata la tesi secondo la quale, con l’entrata in vigore della Costituzione (che afferma i principi di legalità dell’azione amministrativa e di laicità dello Stato e garantisce libertà di coscienza e di religione) si è verificata un’invalidità sopravvenuta della circolare ministeriale, non ne deriverebbe che l’amministrazione della giustizia sarebbe per ciò stesso legittimata a disapplicarla, perché il potere di disapplicazione degli atti amministrativi illegittimi spetta solo al giudice e non all’amministrazione che ha emesso l’atto. Tuttavia l’amministrazione, ove ritenga un proprio atto (originariamente o per circostanze sopravvenute) illegittimo ha il potere di abrogarlo o revocarlo.
            Il procedimento disciplinare è stato definito con sentenza n. 88 del 22 gennaio/26 maggio 2010 (che si produce sub doc. n. 3) con la quale la sezione disciplinare del CSM ha condannato Luigi Tosti alla rimozione dalla magistratura.
            La motivazione di questa sentenza diverge in modo sostanziale da quella dell’ordinanza di sospensione. Infatti, mentre i giudici della precedente Sezione disciplinare avevano sospeso Luigi Tosti perché avevano escluso che egli potesse “autotutelare” i suoi diritti di libertà religiosa e di coscienza col rifiuto di tenere le udienze, i giudici della nuova Sezione disciplinare hanno affermato il principio opposto, e cioè che “l’obbligo di esercitare la giurisdizione sotto la tutela simbolica del crocifisso metteva in discussione il fondamentale diritto soggettivo di libertà religiosa e di opinione del Tosti”. Ciononostante, il CSM ha rimosso il magistrato perché aveva “persistito” nel rifiuto anche dopo che il Presidente del Tribunale gli aveva offerto il “rimedio provvisorio” di tenere le udienze in un’aula senza crocifisso, in attesa che il Giudice Amministrativo si pronunciasse su questo ricorso.
            La sanzione massima della “rimozione” è stata peraltro scelta dal CSM per finalità di “prevenzione speciale”, e cioè per evitare che il dr. Tosti, una volta riassunto in servizio, potesse “pretendere” dal Ministro di Giustizia il rispetto dei suoi diritti inviolabili, ovverosia che venissero rimossi i crocifissi che, a giudizio dello stesso CSM, ledevano il principio supremo di laicità e i suoi diritti inviolabili.[3]
            Questa sentenza del CSM è stata impugnata ma le SS.UU. della Cassazione civile hanno respinto il ricorso con sentenza n. 5924 dell’8 febbraio/14 marzo 2011 (che si produce sub doc. n. 4).
Per quel che qui rileva, la Cassazione ha chiarito che Luigi Tosti è stato condannato solo per il secondo addebito – e cioè per “aver persistito nel rifiuto nonostante la messa a disposizione da parte del Presidente del Tribunale di un’aula priva di simboli religiosi.
Così motivano infatti le SS.UU. a pag. 22 della sentenza:
la Sezione disciplinare non ha ritenuto la responsabilità del dr. Tosti, perché si era rifiutato di fare udienza in un'aula ove fosse esposto il crocifisso: anzi ha specificato che solo in questo caso, e cioè se gli fosse stato imposto di esercitare la giurisdizione sotto la tutela simbolica del crocifisso, ciò poteva mettere in discussione il suo diritto soggettivo di libertà religiosa e di opinione”.
C) A causa del rifiuto di tenere le udienze sotto l’imposizione dei crocifissi il dr. Luigi Tosti è stato sottoposto anche ad un secondo procedimento penale, subendo in data 21 febbraio 2008 un’ulteriore condanna a cinque mesi di reclusione da parte del Tribunale di L’Aquila, contro la quale ha proposto appello. La discussione di questo appello è stata fissata per l’udienza del 5.7.2012 e, nella sua “nuova” veste di imputato, il dr. Tosti ha chiesto alla Corte di L’Aquila di attivarsi presso il Ministero di Giustizia per ottenere la rimozione dei crocefissi al fine di garantirgli il rispetto dei diritti di libertà di religione e di coscienza durante la celebrazione del dibattimento, invitando i giudici -in caso di persistente inottemperanza del Ministro- a sollevare un conflitto di attribuzione dinanzi la Corte Costituzionale. Anche i due difensori del Tosti si sono associati a questa richiesta, perché ritenevano che la presenza dei crocifissi ledesse i loro pari diritti di libertà di religione e di coscienza e di rispetto dei principi supremi di laicità e di imparzialità dei giudici.
Con ordinanza dibattimentale del 5.7.2012 -che si produce sub doc. n. 5- la Corte d’Appello ha ritenuto fondate le pretese dell’imputato e dei difensori, affermando che era “meritevole di tutela, alla luce dei principi costituzionali, il diritto dei difensori e dell'imputato a presenziare e ad esercitare le prerogative difensive in un'aula di giustizia priva di espliciti simboli religiosi”. Tuttavia, anziché invitare il Ministro di Giustizia e rimuovere i crocefissi -oppure a sollevare un conflitto di attribuzione davanti la Consulta- la Corte ha reputato che “la tutela di detti diritti poteva agevolmente essere garantita mediante la celebrazione del processo in altra aula della Corte, priva dei predetti simboli”.
All’esito del dibattimento il dr. Tosti è stato assolto con formula piena con sentenza della Corte d’Appello di L’Aquila n. 2072 del 5.7.2012, che si produce sub doc. n. 6.
Per quel che qui rileva, la Corte d’Appello ha “in primo luogo, ribadito e confermato il contenuto dell'ordinanza emessa in udienza sulla questione preliminare sollevata dall'appellante e dai suoi difensori”, asserendo che “l’imputato ed i suoi difensori avevano ed hanno il diritto a presenziare e ad esercitare le proprie prerogative difensive in un'aula di giustizia priva di espliciti simboli religiosi”. I Giudici hanno tuttavia ritenuto che “tale diritto, espressione e manifestazione dei diritti primari, costituzionalmente riconosciuti, di Casella di testo: f1libertà di coscienza, di libertà di religione e di uguaglianza, oltre che del principio di laicità dello Stato al quale è pacificamente ispirata la Costituzione repubblicana, doveva ritenersi essere stato sufficientemente ed adeguatamente garantito attraverso la concreta ed effettiva celebrazione del processo di appello in un'aula di fatto priva di crocifisso od altri simboli religiosi.” Hanno osservato che, “d'altra parte, non sarebbe stato possibile disporre, come richiesto dalla difesa dell'imputato, la sospensione del processo in attesa delle determinazioni del competente Ministro di Giustizia circa il permanere, nelle aule giudiziarie italiane in generale, del crocifisso, simbolo della religione cattolica”, perché “il caso non rientrava tra quelli nei quali fosse possibile tecnicamente sospendere il processo ai sensi degli artt. 45 e segg. c.p.p., né, del resto, sarebbe stato possibile sollevare conflitto di attribuzioni dinanzi alla Corte Costituzionale, dal momento che era il Ministro di Giustizia (e non altri, quali, ad esempio, il Presidente del Tribunale ovvero la Corte di Appello) l'espressione del potere dello Stato abilitato a disporre per l'eventuale eliminazione del simbolo della religione cattolica dalle aule giudiziarie.
            Anche i giudici della Corte d’Appello, infine, hanno riconosciuto la legittimità del rifiuto del dr. Tosti di esercitare le sue mansioni di magistrato sotto l’imposizione del crocifisso cattolico, esprimendosi nella sentenza assolutoria in questi significati termini: “si ravvisa indubbiamente, in capo all'imputato, il diritto primario ed inviolabile di libertà di coscienza e di libertà religiosa, nonché il suo diritto al rispetto del principio di laicità dello Stato enucleato e ricavabile dalla Costituzione repubblicana, diritti tutti traducentisi in quello di esercitare la propria attività lavorativa di magistrato in un'aula priva del crocifisso (quale simbolo della religione cattolica ) o di altri simboli religiosi”.
            Traendo le debite conclusioni dalle succitate pronunce della Cassazione penale, della Sezione disciplinare del CSM, delle SS.UU. della Cassazione civile e, infine, della Corte di Appello di L’Aquila, si deve affermare che TUTTI questi giudici hanno affermato l’assoluta incompatibilità della circolare del ministro fascista Rocco col rispetto dei diritti primari inviolabili del “dipendente” Luigi Tosti di libertà religiosa, di coscienza, di eguaglianza e non discriminazione e di rispetto del principio supremo di laicità, confermando dunque la piena fondatezza -nel merito- del presente ricorso, che è stato attivato nel lontano aprile del 2004.
Ma si deve anche grottescamente affermare che il dr. Luigi Tosti è stato “rimosso” dalla magistratura perché non ha accettato di essere “confinato” in un’aula speciale a causa dei propri convincimenti religiosi “dissidenti”, mentre i crocifissi – di cui è stata riconosciuta da parte di tutti questi giudici l’assoluta incompatibilità col principio supremo di laicità e col rispetto dei diritti di libertà religiosa, di eguaglianza e di coscienza del Tosti (come peraltro di qualsiasi altro dipendente)– seguitano ad essere tranquillamente esposti nelle aule giudiziarie italiane.
TERZO PUNTO
Permanenza dell’interesse del dr. Luigi Tosti alla decisione del ricorso.
            Come sopra segnalato, il dr. Luigi Tosti è stato rimosso dalla magistratura con sentenza del CSM n. 88 del 2010. Il suo difensore ritiene dunque doveroso affrontare la questione relativa alla permanenza dell’interesse del Tosti alla decisione del suo ricorso col quale, nel lontano aprile del 2004, ha chiesto la rimozione dei crocifissi dalle aule giudiziarie italiane sul presupposto che la circolare fascista del ministro Rocco dovesse considerarsi tacitamente abrogata, ex art. 15 preleggi, per incompatibilità col principio supremo di laicità, col diritto di libertà di religione e di coscienza, col diritto all’eguaglianza religiosa e con l’obbligo di imparzialità del giudice, così come peraltro affermato dalla Cassazione penale nella sentenza n. 4372 del 2000 (imputato Montagnana). Qualcuno, in effetti, potrebbe sostenere che, non facendo più parte della magistratura, sia venuto meno l’interesse il Tosti a vedere rimossi i crocifissi.
            Questa tesi non potrebbe essere accolta per le motivazioni che seguono.
1.                  In primo luogo si rappresenta che un’ipotetica pronuncia di “cessazione della materia del contendere” concretizzerebbe una chiara ipotesi di “diniego di giustizia” che, nel caso specifico, avrebbe per oggetto addirittura “diritti primari” (inviolabili) garantiti (al Tosti) dalla Costituzione italiana e dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti e delle libertà dell’uomo. Si ribadisce, infatti, che col suo ricorso il dr. Luigi Tosti ha chiesto la tutela di diritti primari quali quello del rispetto del principio supremo di laicità, del rispetto del diritto di libertà di religione, del rispetto del diritto di eguaglianza e non discriminazione religiosa e del rispetto del diritto di libertà di coscienza legato all’imparzialità dell’esercizio delle sue funzioni giurisdizionali.
            Pertanto, un’omessa pronuncia da parte del G.A. integrerebbe la violazione del “diritto ad un ricorso effettivo” garantito dall’art. 13 della Convenzione sui diritti dell’uomo, a mente del quale “ogni persona i cui diritti e libertà riconosciuti nella presente Convenzione fossero violati, ha diritto di presentare un ricorso avanti ad una magistratura nazionale, anche quando la violazione fosse stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio di funzioni ufficiali”: il che autorizzerebbe il Tosti a proporre un immediato ricorso alla CEDH per ottenere un’equa riparazione.
2.                  In secondo luogo un’omessa pronuncia sul merito del ricorso violerebbe anche l’art. 1 del codice del processo amministrativo, posto che “La giurisdizione amministrativa assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo.
3.                  In terzo luogo l’omessa pronuncia violerebbe anche l’art. 24 della Costituzione (“Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi”) e l’art. 6 della Conv. sui diritti dell’uomo (“Ogni persona ha diritto che la sua causa sia esaminata .....da parte di un tribunale..... che deciderà sia in ordine alle controversie sui suoi diritti....”).
4.                  In quarto luogo si rappresenta che sussiste tuttora l’interesse del ricorrente -sia materiale che morale- alla rimozione dei crocifissi dalle aule giudiziarie. Infatti, sebbene il dr. Tosti non faccia più parte della magistratura e non sia più legato da un rapporto di lavoro col Ministero di Giustizia, egli mantiene il sacrosanto diritto di frequentare le aule giudiziarie senza subire lesione di diritti inviolabili: e questo sia nella veste di “cittadino utente” della giustizia (civile e penale) che nella veste di avvocato. Va rimarcato, infatti, che i diritti primari fatti valere in questo giudizio sono “individuali” -cioè del singolo individuo- sicché sarebbe arbitrario scindere in capo all’ “individuo” dr. Luigi Tosti i diritti di libertà religiosa e di eguaglianza che gli competono come “magistrato” da quelli che gli competono -per gli stessi identici motivi, e cioè a causa dell’illegale imposizione dei crocifissi e del divieto di esporre i propri simboli- come “cittadino utente” della giustizia e come cittadino “avvocato”. Permane, dunque, l’interesse concreto ed attuale del Tosti ad ottenere la rimozione dei crocifissi dalle aule di giustizia, anche perché una declaratoria di cessazione della materia del contendere lo obbligherebbe a promuovere, immediatamente, un altro identico ricorso per la tutela degli stessi identici diritti, sempre conseguente all’illegittima imposizione dei crocifissi nelle aule giudiziarie!
5.                  In quinto luogo si rappresenta che la pronuncia sull’illegittimità dell’esposizione dei crocifissi è in ogni caso prodromica rispetto all’azione per risarcimento dei danni conseguenti all’imposizione del crocifisso. Dunque, negare una siffatta pronuncia significherebbe negare il diritto al risarcimento del danno (cfr. TAR Firenze, n. 182 del 2011 e Cons Stato 27.12.2010 n. 9395). E questo non è consentito, sia perché l’art. 35 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo impone -come condizione di ricevibilità dei ricorsi alla CEDH- che la parte abbia dapprima esaurito le vie di ricorso interne per ottenere il ristoro dei danni [sicché non si giustificherebbe che le Giurisdizioni dei singoli Stati omettano di pronunciarsi su tali lesioni], sia perché in ogni caso il terzo comma dell’art. 34 del codice del processo amministrativo dispone che “quando, nel corso del giudizio, l'annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l'illegittimità dell'atto se sussiste l'interesse ai fini risarcitori.”
            Le considerazioni sin qui esposte sono supportate dalla costante Giurisprudenza amministrativa. Si richiama Cons. Stato, sent. 9395 del 13.7-27.12.2010, che ha così motivato: “nel processo amministrativo la dichiarazione di improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse può essere pronunciata a seguito dell’intervento di una situazione di fatto o di diritto del tutto nuova e sostitutiva rispetto a quella esistente al momento della proposizione del ricorso, tale da rendere certa e definitiva l’inutilità della sentenza, per avere fatto venire meno per il ricorrente qualsiasi (anche soltanto strumentale o morale o comunque residua) utilità della pronuncia del Giudice.
Tale circostanza deve tuttavia essere accertata con il massimo rigore, per evitare che la declaratoria di improcedibilità si trasformi in una sostanziale elusione del dovere da parte del Giudice di pronunciarsi sulla domanda (Consiglio di Stato, IV, 21 agosto 2003, n. 4699) e, pertanto, devono di volta in volta essere verificate le concrete conseguenze del nuovo atto sul rapporto preesistente, al fine di stabilire se, nonostante il suo sopravvenire, l'eventuale sentenza di accoglimento del gravame, a prescindere dal suo contenuto eliminatorio del provvedimento impugnato, possa comportare o meno ulteriori effetti conformativi, ripristinatori o anche solo propedeutici a future azioni rivolte al risarcimento del danno che potranno essere proposte anche in futuro (Consiglio Stato, A.P., 26 febbraio 2003 n. 4; Consiglio Stato, sez. VI, 18 marzo 2008 n. 1137).
Nel caso che occupa l’appellante sostiene che permane, nonostante che l’atto impugnato fosse di natura organizzativa, il suo interesse morale, anche se nelle more è stato collocato in pensione, ad ottenere l’annullamento di un atto che ha inciso comunque sul suo prestigio, avendo leso la sua immagine professionale, nonché strumentale, ai fini del conseguimento del risarcimento dei danni che afferma aver subìto.
Il Collegio ritiene quindi che l’appellante conservi nel caso che occupa un interesse attuale all’annullamento del provvedimento impugnato (pur se di natura organizzatoria), anche in seguito al suo collocamento in pensione, perché il mancato apprezzamento della legittimità o meno dello stesso (essendo di ostacolo all’apprezzamento della ingiustizia del danno o della illiceità della condotta tenuta dall'Amministrazione) frustrerebbe comunque, a prescindere dalla ammissibilità della richiesta di risarcimento danni (formulata nel caso di specie per la prima volta in appello, che sarà oggetto di successiva disamina), il suo interesse strumentale a dimostrare il danno al suo prestigio professionale subito nel corso della sua attività fintantoché l’atto impugnato ha spiegato i suoi effetti ,al fine di ottenerne, anche in separata sede, il risarcimento.” In senso conforme si sono pronunciati: Cons. Stato, IV, 3.11.2008, n. 5478; Cons. Stato, V, 8.9.1995, n. 1301; TAR Toscana, III, 25.11.2010-2.2.2011, n. 182; TAR Campania, Salerno, II, 14.7.2009, n. 4013.
            Questa difesa rappresenta comunque che il dr. Luigi Tosti, oltre a vantare un interesse materiale ed attuale alla rimozione dei crocifissi -o, in alternativa, all’ostensione dei propri simboli religiosi nelle stesse aule di giustizia- vanta un eclatante interesse “morale” alla definizione del proprio ricorso nel merito. Un’eventuale pronuncia di “cessazione della materia del contendere”, infatti, sarebbe ai limiti del grottesco e dell’immoralità, posto che finirebbe per “premiare” l’illegale permanenza dei crocifissi “grazie” alla “lentezza” del presente giudizio amministrativo: e questo a fronte di una “rimozione” dalla magistratura del dr. Luigi Tosti che, per converso, è stata deliberata in tempi rapidi e che lo ha visto oggetto, nell’arco di appena sei anni, di ben due processi penali con 5 gradi di giudizio, di una sospensione cautelare dalle funzioni e dallo stipendio e di due procedimenti disciplinari con 5 gradi di giudizio, all’esito dei quali egli è stato sì rimosso dalla magistratura, ma con motivazioni che hanno affermato l’assoluta illiceità, ai suoi danni, dell’imposizione del crocifisso da parte del Ministro di Giustizia. Sarebbe dunque beffardo che al Tosti -dopo che è stato rimosso dalla magistratura a causa dell’illecita imposizione dei crocifissi e del divieto di esporre i suoi simboli religiosi in regime di eguaglianza e pari dignità- venisse oggi negato il diritto di far accertare dai Giudici amministrativi che quell’imposizione dei crocifissi e quel divieto di esporre i propri simboli furono illeciti e lesivi dei suoi diritti inviolabili.
QUARTO PUNTO.
In quarto luogo si ribadisce che il TAR delle Marche ha completamente travisato la domanda che il Tosti ha proposto con i motivi aggiunti.
Il Tar ha infatti affermato che il ricorrente avrebbe chiesto la rimozione del crocifisso da tutti gli uffici giudiziari italiani e, in subordine, l’esposizione della menorà, “in nome di un astratto sindacato di legalità”, “svincolato cioè dalla tutela di un interesse proprio del ricorrente”, ovverosia per tutelare il principio di laicità e i diritti di eguaglianza e libertà religiosa dei “cittadini atei o credenti in religioni diverse da quella cattolica”.
Così si esprime, in effetti, il TAR: “Nella presente controversia.... il dott. Tosti chiede – mediante la domanda formulata con i motivi aggiunti – che una volta accertata la violazione del principio di laicità e dei diritti di uguaglianza e libertà religiosa dei cittadini atei o credenti in religioni diverse da quella cattolica, poste in essere dallo Stato italiano mediante l’esposizione del (solo) simbolo del crocifisso negli uffici giudiziari, e negli altri pubblici uffici in genere, questo Tribunale condanni il Ministero della Giustizia a rimuovere il simbolo religioso del crocifisso dalle aule di tutti gli uffici giudiziari italiani o, in via gradata, ad esporre a proprie spese in tutte le aule giudiziarie italiane tutti gli altri simboli religiosi, atei ed agnostici, ed in ogni caso la menorà ebraica.
            Queste affermazioni travisano la causa petendi e il petitum della domanda spiegata dal Tosti. E questo risulta dalla lettura delle conclusioni realmente formulate dal Tosti nei motivi aggiunti, che sono del seguente tenore:
Piaccia al T.A.R. delle Marche, accertata la lesione dei diritti soggettivi del ricorrente [e non dei “cittadini atei e/o credenti in altre religioni”: n.d.r.] e la conseguenziale illegittimità dei rifiuti opposti dal Ministro di Giustizia, ordinare in via principale al Ministro di Giustizia e al Presidente del Tribunale di Camerino di rimuovere dalle aule del Tribunale di Camerino e dalle aule di tutti gli uffici giudiziari il simbolo religioso del crocifisso, condannando dunque l'Amministrazione ad eseguire la rimozione senza indugio, con contestuale comminatoria, in caso di ulteriore ritardo, di nomina di commissario ad acta alla scadenza del termine fissato.
Piaccia, in via gradata, condannare l'Amministrazione ad esporre a proprie spese in tutte le aule giudiziarie italiane tutti gli altri simboli religiosi, atei ed agnostici e, in ogni caso, la menorà ebraica. In via più gradata consentire al ricorrente di esporre altri simboli religiosi, atei o agnostici in qualsiasi altra aula giudiziaria italiana.
Dunque il dott. Tosti non si è mai sognato di farsi “paladino” dei diritti o degli interessi dei “cittadini atei o credenti in altre religioni” o di “astratti principi di legalità” -come erroneamente ha affermato il TAR- ma ha al contrario agito esclusivamente per la tutela dei propri diritti primari assoluti di rango costituzionale, collegandoli all'espletamento della propria attività lavorativa istituzionale, e cioè al fatto che gli venivano imposti i crocifissi e che gli veniva per converso vietato di esporre i propri simboli religiosi, come peraltro risulta dal tenore dei motivi aggiunti.
In questi ultimi, infatti, il ricorrente ha asserito che aveva proposto, nella sua qualità di magistrato ordinario in servizio presso il tribunale di Camerino, il ricorso al TAR delle Marche n. 477/2004 col quale aveva chiesto che, “accertata la lesione dei suoi diritti soggettivi....venisse ingiunto al Ministro di Giustizia e al Presidente del tribunale di rimuovere dalle aule giudiziarie il crocifisso” e, altresì, che “il comportamento omissivo della P.A. determinava la lesione di diritti soggettivi assoluti, di rango costituzionale, di cui il ricorrente era portatore: lesione di gravità tale da consentire al Tosti..... di astenersi legittimamente dal prestare il lavoro”. Il Tosti ha anche rappresentato che “con lettera del 1.5.2005 (doc. n. 26) aveva reiterato al Ministro di Giustizia... la richiesta di rimozione del simbolo cattolico da tutti gli uffici italiani e, in via subordinata, che l’Amministrazione esponesse nelle aule giudiziarie, a sue spese, il simbolo della menorà ebraica, religione cui aveva ufficialmente aderito ai sensi della legge n. 101/1989, oppure che lo autorizzasse ad esporlo a sue spese”.
            Riepilogando, dagli atti processuali e dalle conclusioni formulate dal ricorrente risulta, in modo inconfutabile, che il dr. Tosti ha chiesto la rimozione dei crocifissi da tutte le aule giudiziarie o, in subordine, l’autorizzazione ad esporvi la menorà, non già per tutelare i “diritti dei cittadini atei o agnostici” e/o alcuni “astratti principi di legalità”, bensì per tutelare i suoi concreti diritti soggettivi, assoluti e inviolabili, assumendo che essi venivano lesi dall’imposizione dei crocifissi e dal divieto di esporre i SUOI simboli a fianco dei crocifissi.
Del tutto fantasiosa è poi le congettura secondo cui “sembrerebbe” che il dr. Tosti abbia individuato come “controparte” “non soltanto il Ministero di Giustizia, da addirittura lo Stato italiano”. In realtà il dr. Tosti ha indirizzato le sue richieste -sia stragiudiziali che giudiziali- unicamente nei confronti del Ministero di Giustizia.
QUINTO PUNTO
            In quinto luogo si rappresenta che la richiesta di rimozione dei crocifissi da TUTTE le aule giudiziarie italiane non può essere considerata come una domanda che travalica le attribuzioni del Giudice amministrativo perché svincolata da un interesse soggettivo del Tosti e tesa, per converso, a provocare un astratto sindacato di legittimità dell’azione amministrativa, ma, al contrario, una domanda che rientra necessariamente nella piena giurisdizione di qualsiasi giudice.
Si rappresenta, infatti, che il dr. Tosti ha sempre prospettato -sia nelle lettere prodotte in giudizio che nel ricorso e nei motivi aggiunti- che la circolare del ministro fascista Rocco doveva ritenersi tacitamente abrogata, ex art. 15 delle preleggi, perché incompatibile con sopravvenute norme di rango costituzionale e della Conv. sui diritti dell’uomo. Pertanto, dal momento che la circolare in questione è un atto amministrativo di portata GENERALE, la sua intervenuta abrogazione -di cui è stato chiesto in via giudiziale l’accertamento- non potrebbe non avere effetti altrettanto GENERALI, e cioè estesi a tutti gli uffici giudiziari italiani.
Come argomento confermativo basterebbe considerare l’ipotesi che l’ostensione dei crocifissi nelle aule giudiziarie fosse stata comminata da una “legge” fascista, piuttosto che da una circolare. Ci si dovrebbe allora interrogare se al Giudice Amministrativo, dopo che questi abbia considerato questa legge tacitamente abrogata ex art. 15 delle disp. prel. al c.c., potrebbe essere negato il potere di ordinare la rimozione dei crocifissi da TUTTE le aule giudiziarie italiane. La risposta deve essere negativa, perché la caducazione di un atto normativo GENERALE -tacita o espressa che sia- non può non riguardare l’atto nella sua interezza e, dunque, non può che avere effetti altrettanto GENERALI.
E questo principio vale anche nell’ipotesi in cui sia la Corte Costituzionale a dichiarare un atto normativo contrario a Costituzione: la Consulta, infatti, non dispone mai la “disapplicazione” ad personam -o limitata al caso singolo- delle norme che dichiara non conformi alla Costituzione, ma le annulla con effetti generali.
A maggior ragione, dunque, si deve ritenere che un semplice atto amministrativo generale debba essere dichiarato caducato nella sua interezza -e non disapplicato parzialmente o per il singolo caso- nell’ipotesi in cui il Giudice accerti che lo stesso non è più compatibile con norme, sopravvenute, di rango costituzionale.
            Dunque, non solo non sussiste il supposto “difetto di giurisdizione” del G.A., ma si deve al contrario affermare che la rimozione generalizzata di tutti i crocifissi da tutte le aule di giustizia di tutti gli uffici giudiziari italiani è l’UNICA conseguenza giuridica che può scaturire dall’accertamento richiesto dal ricorrente, e cioè dall’incompatibilità della circolare fascista del 1926 con le norme della Costituzione. Trattandosi infatti di un atto “GENERALE”, la sua caducazione ex art. 15 disp. prel. c.c. non può che avere effetti altrettanto generali, non essendo ipotizzabile una disapplicazione parziale e/o limitata alla “persona” del ricorrente o all’ufficio dove il ricorrente espleta le sue funzioni.
            Di più: una disapplicazione “parziale” o “ad personam” violerebbe il principio di legalità sancito dagli articoli 97 e 101 della Costituzione, a mente dei quali gli atti normativi GENERALI –siano essi “leggi” o regolamenti o atti amministrativi- si debbono applicare a tutti i cittadini senza distinzione alcuna di razza, sesso, religione, condizioni sociali etc.
Sarebbe dunque illegale che coloro che sono tenuti ad applicare o a garantire l’applicazione degli atti GENERALI (siano essi giudici od autorità amministrative) possano disporre “eccezioni” o “deroghe” per casi singoli, siano esse di favore o di sfavore.
Se la LEGGE impone, ad esempio, a TUTTI i motociclisti l’obbligo di indossare il “casco”, è impensabile che una qualche autorità consenta al figlio del Prefetto di circolare “senza casco”. Alla stessa stregua, nel caso di specie non si può ipotizzare che il G.A., nell’ipotesi in cui accerti l’intervenuta caducazione della circolare fascista per incompatibilità con norme costituzionali, possa disporre la rimozione dei crocifissi dal ....solo tribunale di Camerino! In realtà, delle due l'una: o l’ostensione del crocifisso è da ritenere legittima -e in questo caso non è legittimo rimuoverlo neppure da una singola aula- oppure è da ritenere illegittima, ma in questo caso il crocefisso deve essere rimosso da tutti i tribunali, e non dalle aule di un singolo tribunale o, ancor più assurdamente, da una singola aula, dove poi “ghettizzare” e “confinare” il dr. Tosti.
      Alla stessa stregua, se un ebreo adisse l’autorità giudiziaria per far dichiarare l’intervenuta abrogazione, ex art. 15 preleggi, degli articoli 1 e 2 del R.D.L. 5.9.1938-XVI, n. 1390, che sanciscono che All'ufficio di insegnante nelle scuole statali o parastatali di qualsiasi ordine e grado e nelle scuole non governative......non possono essere ammesse persone di razza ebraica...”,  e che “Alle scuole di qualsiasi ordine e grado....non possono essere iscritti alunni di razza ebraica”, degli articoli 1 e 3 del R.D.L. 15.11.1938-XVII, n. 1779, che sanciscono che A qualsiasi ufficio od impiego nelle scuole di ogni ordine e grado, pubbliche e private, frequentate da alunni italiani, non possono essere ammesse persone di razza ebraica.....né possono essere ammesse al conseguimento dell'abilitazione alla libera docenza...” e che “Alle scuole di ogni ordine e grado, pubbliche o private, frequentate da alunni italiani, non possono essere iscritti alunni di razza ebraica”, nonché degli articoli 1 e 13 del D.L. 17.11.1938-XVII, n. 1728, che dispongono cheIl matrimonio del cittadino italiano di razza ariana con persona di altra razza è proibito” e che “Non possono avere alle proprie dipendenze persone appartenenti alla razza ebraica: a) le Amministrazioni civili e militari dello Stato; c) le Amministrazioni delle Province, dei Comuni....; e) le Amministrazioni degli Enti parastatali”, potrebbe il Giudice, dopo aver accertato l’incompatibilità di tali norme con i principi sanciti dalla Costituzione del 1948, limitarsi a disapplicarle per la singola fattispecie prospettata dalla parte, obbligandola quindi a riproporre ulteriori identiche vertenze ogni qual volta si riproponga la necessità di far valere l’intervenuta abrogazione? Ovviamente no: trattandosi infatti di norme di legge generali, l’abrogazione per “incompatibilità con le nuove norme” non può che essere generale.
            Le considerazioni giuridiche sin qui esposte risultano confortate dai Giudici che si sono pronunciati sulla questione della liceità dell’ostensione dei crocifissi. In particolare:
1°) La Cassazione penale, Sez. III, con l'ordinanza n. 41.571, pubblicata il 18.11.2005, nel dichiarare l’inammissibilità dell’istanza di rimessione per legittima suspicione sollevata da tale Adel Smith in relazione alla presenza dei crocifissi nelle aule giudiziarie del tribunale di Verona, ha affermato che “è notorio... che la esposizione del crocefisso nelle aule giudiziarie non è limitata al Tribunale di Verona, e neppure agli uffici giudiziari di quella città, ma si estende agli uffici di tutto il territorio nazionale; in piena conformità, del resto, al contenuto della menzionata fonte ministeriale, che indirizza l'obbligo di esporre il crocefisso a tutti i capi degli uffici giudiziari nazionali”. Da questo presupposto la Corte ha poi dedotto che “non spetta al giudice, e tanto meno al giudice di legittimità competente ex artt. 46, comma 3, e 48 c.p.p. il compito di disapplicare una circolare amministrativa che attiene a una materia qual’è quella della manutenzione degli uffici giudiziari e dei loro arredi, assolutamente estranea alle attribuzioni giurisdizionali della magistratura”.
2°) Questo stesso principio è stato affermato dalla VI Sez. della Cassazione penale nella sent. n. 28482/2009, laddove la Corte ha sottolineato che “la contestazione della legittimità dell'affissione del crocifisso nelle aule di giustizia, avvenuta sulla base di una circolare ministeriale non assistita da una espressa previsione di legge impositiva del relativo obbligo, implica - tra l'altro - un problema di carattere generale, che può essere fatto valere sollecitando la Pubblica Amministrazione a rivedere la propria scelta dell'arredo delle dette aule e, in caso di esito negativo, adendo il giudice amministrativo”.
3) I giudici della Corte di Appello di L’Aquila hanno affermato nella sentenza n. 2072 del 5.7.2012 che “è il Ministro di Giustizia (e non altri, quali, ad esempio, il Presidente del Tribunale ovvero la Corte di Appello) l'espressione del potere dello Stato abilitato a disporre per l'eventuale eliminazione del simbolo della religione cattolica dalle aule giudiziarie”.
4) La Sez. disc. del CSM ha affermato nell’ordinanza n. 12/2006 che “non è manifestamente infondata la tesi secondo la quale, con l’entrata in vigore della Costituzione (che afferma i principi di legalità dell’azione amministrativa e di laicità dello Stato e garantisce libertà di coscienza e di religione) si è verificata un’invalidità sopravvenuta della circolare ministeriale” e che “non ne deriverebbe che l’amministrazione della giustizia sarebbe per ciò stesso legittimata a disapplicarla, perché il potere di disapplicazione degli atti amministrativi illegittimi spetta solo al giudice e non all’amministrazione che ha emesso l’atto. Tuttavia l’amministrazione, ove ritenga un proprio atto (originariamente o per circostanze sopravvenute) illegittimo ha il potere di abrogarlo o revocarlo.
5) Infine, la Corte di Cassazione ha ritenuto, nella sentenza n. 4372 del 2000 (imp. Montagnana), che le norme relative all’ostensione del crocifisso dovessero ritenersi tacitamente abrogate ex art. 15 disp. prel, c.c., perché incompatibili con le nuove norme della Costituzione. Così si esprime infatti la Corte: Esse [cioè le norme regolamentari contenute nell'art. 118 r.d. 30.4.1924, n. 965, e nell'All. c) r.d.26.4.1928, n. 1297: n.d.r.] ....... non diversamente da quella legge [cioè la legge “Casati”: n.d.r.:], trovano fondamento nel principio della religione cattolica come sola religione dello stato, contenuto nell'art. 1 dello statuto albertino: principio che proprio il punto 1 del protocollo addizionale degli accordi di revisione del 1984 considera espressamente - se pur ve ne fosse stato bisogno dopo l'entrata in vigore della Costituzione - non più in vigore, con conseguenti ricadute implicite sulla normativa secondaria derivata. Il rapporto di incompatibilità - nel detto parere sbrigativamente ritenuto insussistente - con i sopravvenuti Accordi del 1984, rilevante per l'abrogazione ai sensi dell'art. 15 delle disposizioni sulla legge in generale, si pone, quindi, direttamente non con quelle norme regolamentari bensì con il loro fondamento legislativo: l'art. 1 dello statuto albertino espressamente dichiarato non più in vigore “di comune intesa” (preambolo del prot. add.) con la Santa Sede.”
SESTO PUNTO.
In sesto luogo la difesa del Tosti rappresenta che una pronuncia del Giudice Amministrativo (o del Giudice Ordinario) che si limitasse ad ordinare la rimozione dei crocifissi dalle sole aule del tribunale di Camerino -anziché da TUTTE le aule giudiziarie italiane- violerebbe gli articoli 1, 13, 17, 18, 35, 53 e 58 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata con L. 4.8.1955 n. 848, a mente dei quali lo Stato italiano deve garantire il rispetto dei diritti umani su tutto il territorio nazionale, e non su porzioni limitate di esso.
L’art. 1 della Convenzione sancisce infatti a carico degli Stati contraenti l’ “obligation de respecter les droits de l'homme”, riconoscendo a “à toute personne relevant de leur juridiction les droits et libertés définis au titre I de la présente Convention”.
L’articolo 13 della Convenzione attribuisce le “droit à un recours effectif” a “toute personne dont les droits et libertés reconnus dans la présente Convention ont été violés....... alors même que la violation aurait été commise par des personnes agissant dans l'exercice de leurs fonctions officielles”.
L’articolo 17 della Convenzione vieta agli Stati l’”interdiction de l'abus de droit”, e cioè dispone che “aucune des dispositions de la présente Convention ne peut être interprétée comme impliquant pour un Etat, un groupement ou un individu, un droit quelconque de se livrer à une activité ou d'accomplir un acte visant à la destruction des droits ou libertés reconnus dans la présente Convention ou à des limitations plus amples de ces droits et libertés que celles prévues à ladite Convention.”
Analogamente, l’articolo 18 (Limitation de l'usage des restrictions aux droits) dispone che “les restrictions qui, aux termes de la présente Convention, sont apportées auxdits droits et libertés ne peuvent être appliquées que dans le but pour lequel elles ont été prévues.”
L’articolo 35 della Convenzione stabilisce che “la Cour ne peut être saisie qu'après l'épuisement des voies de recours internes.......”
L’articolo 53 della Convenzione sancisce che “aucune des dispositions de la présente convention ne sera interprétée comme limitant ou portant atteinte aux droits de l'homme et aux libertés fondamentales qui pourraient être reconnus conformément aux lois de toute Partie contractante ou à toute autre Convention à laquelle cette Partie contractante est partie.”
Infine, l’art. 58, par. 1°, della Convenzione dispone che “Tout Etat peut, au moment de la ratification ou à tout autre moment par la suite, déclarer, par notification adressée au Secrétaire général du Conseil de l'Europe, que la présente Convention s'appliquera, sous réserve du paragraphe 4 du présent article, à tous les territoires ou à l'un quelconque des territoires dont il assure les relations internationales.”
            Dal tenore di tutte queste disposizioni si evince, in primo luogo, che gli Stati contraenti sono obbligati a rispettare i diritti e le libertà fondamentali degli individui su tutto il territorio nazionale – e non su porzioni limitate di esso– e che qualsiasi persona, i cui diritti e libertà siano stati violati, ha il diritto di presentare un ricorso ad una autorità interna e a un tribunale per ottenere una tutela “effettiva”, cioè una tutela che non sia parziale e limitata nello spazio e/o nel tempo.
            Dal tenore di tali norme si evince, altresì, che gli Stati contraenti hanno l’obbligo di garantire il rispetto dei diritti umani in modo pieno e che, dunque, non possono imporre limitazioni o restrizioni superiori a quelle previste dalla Convenzione.
            Dunque, alla luce di queste norme della Convenzione una pronuncia giurisdizionale che si limitasse ad assicurare ad un cittadino il rispetto dei diritti inviolabili su una porzione limitata del territorio dello Stato sarebbe sicuramente illegittima ed elusiva, perché lascerebbe persistere la violazione dei diritti umani in altri spazi del territorio dello Stato contraente.
Nel caso di specie, dalle norme sopra citate si ricava che lo Stato italiano doveva e deve garantire a Luigi Tosti il rispetto dei suoi diritti umani in tutte le aule dell’ufficio di appartenenza e in tutte le aule degli altri uffici giudiziari che egli, al pari degli altri dipendenti dell’Amministrazione, aveva il diritto di utilizzare e frequentare. La situazione di legalità e di rispetto dei diritti umani doveva e deve dunque essere ripristinata rimuovendo i crocifissi da tutte le aule, e non rimuovendoli dal solo tribunale di Camerino o, addirittura, confinando e ghettizzando il dr. Tosti in una singola aula senza crocifisso, quasi si trattasse di un appestato!
            Sostenere che uno Stato, in caso di conclamata violazione di diritti umani, possa accordare alla vittima una tutela limitata nello spazio -lasciando cioè persistere la lesione dei suoi diritti inviolabili in tutti gli altri “spazi” del territorio nazionale, cui egli ha legittimo diritto di accesso e di frequentazione- significa legittimare, innanzitutto, la violazione dell’art. 1 della Convenzione, che impone agli Stati l’obbligo di rispettare i diritti umani sull’intero territorio nazionale; ma significa anche accordare alle “vittime” una tutela assolutamente parziale e inidonea, violando così gli articoli 13, 17, 18, 35, 53 e 58 che impongono agli Stati di accordare una tutela effettiva dei diritti e di non sottoporli a restrizioni maggiori di quelle consentite dalla Convenzione.
            Se si opinasse diversamente, si perverrebbe a conseguenze grottesche. Ad esempio, se nelle aule giudiziarie fosse imposta l’affissione di targhe ingiuriose e razziste nei confronti degli ebrei, sarebbe sicuramente illecito il “rimedio” di rimuoverle dal solo ufficio di appartenenza o, addirittura, di confinare e ghettizzare il dipendente ebreo in una singola aula priva della targa ingiuriosa. Questi “sconci” rimedi, infatti, lascerebbero persistere la lesione dei diritti del dipendente ebreo in tutte le altre aule giudiziarie che egli -al pari dei colleghi di razza “ariana”- avrebbe diritto di frequentare e di utilizzare -liberamente e nel pieno rispetto dei suoi diritti- per svolgere le sue funzioni.
SETTIMO PUNTO.
In settimo luogo, ad integrazione del secondo motivo d’appello, col quale si è censurata la sentenza del TAR che ha “disapplicato” gli artt. 3 e 63 della legge n. 165/2001, che sanciscono la giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo per le cause di pubblico impiego dei magistrati, si rappresenta che la giurisdizione esclusiva del G.A. deve essere affermata anche in virtù dell’art. 4 del decreto lgs 9.7.2003 n. 216, che reca disposizioni relative all'attuazione della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall'età e dall'orientamento sessuale, per quanto concerne l'occupazione nel settore pubblico e privato, vietando qualsiasi discriminazione diretta o indiretta da parte del datore di lavoro, pubblico o privato. Nel caso di specie, infatti, il ricorrente Tosti ha denunziato atti discriminatori da parte del Ministero di Giustizia (datore di lavoro), consistenti nell’imposizione del crocifisso e nel divieto di esporre i propri simboli, sicché va applicato anche l’art. 4 del d. l.vo n. 216/2003 che sancisce che la tutela giurisdizionale contro gli atti discriminatori appartiene all’A.G.O., “salva la giurisdizione del giudice amministrativo per il personale di cui all'articolo 3, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165“. Anche in base a questa norma speciale, pertanto, sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
OTTAVO PUNTO
In ottavo luogo, pur non sussistendo alcuna necessità di impugnativa sul punto, si ribadisce l’infondatezza dell'eccezione dell'Avvocatura di Stato circa la presunta decadenza dall'impugnazione del “provvedimento” 23.12.2003 prot. n. 2113 con cui il Presidente del Tribunale di Camerino “ha negato la rimozione del crocefisso dalle aule del Tribunale di Camerino”. Al di là della totale carenza del Presidente del Tribunale in merito alla rimozione dei crocifissi, va ribadito che non vi era alcuna necessità di impugnare alcun silenzio-rifiuto -né del Ministro né del Presidente del Tribunale- vertendosi in materia di tutela di diritti soggetti, peraltro assoluti e di rango primario e costituzionale.
Sul punto ci si limita a richiamare la costante giurisprudenza del Consiglio di Stato e, in particolare, Cons. Stato, IV Sez., n. 7057 del 21.7-12.11.2009: “Per quanto riguarda, poi, la verifica circa la sussistenza di un obbligo di provvedere, in presenza del quale l’inerzia dell’Amministrazione assume rilevanza giuridica sub specie di silenzio rifiuto, va rilevato come la giurisprudenza abbia puntualizzato che il nuovo rito abbreviato di cui all’art. 2 L. n. 205/2000 riguardi solo il silenzio- rifiuto in senso tecnico, ossia il comportamento omissivo che maturi a fronte di un’istanza diretta a far valere una posizione di interesse legittimo e non anche l’inerzia della P.A. a fronte di un’istanza diretta a far valere un diritto soggettivo (cfr. Cons. Stato, IV Sez., n. 208/04; n. 5711/03; VI Sez. n. 2534/03; Iv Sez. n. 540/03; Vi Sez. , n. 4824/02).
Invero, l’istituto del silenzio-rifiuto trova la sua giustificazione laddove la realizzazione dell’interesse sostanziale del ricorrente sia subordinata alla valutazione della compatibilità con l’interesse pubblico e di conseguenza richieda la collaborazione dell’Amministrazione cui, istituzionalmente, compete tale valutazione.
Quando, invece, si sia in presenza di diritti soggettivi e, quindi, si facciano valere interessi non correlati al potere dell’Amministrazione, la procedura del silenzio appare inutile, ben potendo il soggetto ottenere una tutela più diretta ed immediata tramite un’azione di accertamento, senza la necessaria intermediazione di un provvedimento formale (cfr. Cons. Stato, IV Sez., n..419/05). In senso conforme: Cons. Stato, Sez. 6 sent. num. 04632 del 28/06/2004; Cons. Stato sent. 03341 del 21/05/2004; Cons. Stato, sent. 01873 del 06/04/2004; Cons. Stato n. 441 del 09/02/2004; n. 03279 del 10/06/2003; n. 02534 del 13/05/2003; n. 511 del 30/03/1998; n. 00820 del 14/07/1997.
NONO PUNTO.
In nono luogo si evidenzia l’assoluta irrilevanza nel presente giudizio della sentenza Lautsi c. Italie del 18 marzo 2011 con la quale la Grande Chambre della CEDH ha ritenuto che l’esposizione del crocifisso in un’aula scolastica non fosse lesiva del diritto dei genitori di educare i figli secondo i propri convincimenti (art. 2 del Primo protocollo addizionale) e della libertà religiosa dei genitori e degli alunni (art. 9).
Con questa sentenza, infatti, la CEDH ha innanzitutto giustiziato l’unico argomento giuridico che il Consiglio di Stato aveva ritenuto valido per giustificare l’ostensione dei crocifissi nelle scuole -e cioè che si trattava di un simbolo “culturale”- affermando che il crocifisso è, innanzitutto, un simbolo religioso che viene esposto in quanto tale dallo Stato italiano. Ha tuttavia affermato che il “crocifisso” è un “simbolo passivo” che “non indottrina”, cioè non induce a credere: tuttavia il ricorrente Luigi Tosti non ha mai sostenuto la singolare tesi che il crocifisso appeso nelle aule di giustizia interferisca con i suoi neuroni cerebrali, inducendolo a “credere” o a convertirsi al cattolicesimo. Egli ha al contrario dedotto che l’obbligo di esercitare le sue funzioni giurisdizionali sotto la tutela simbolica del crocifisso violava il suo diritto di libertà religiosa perché lo ha costretto a subire e condividere un atto di manifestazione di fede cattolica, senza peraltro avere la possibilità di neutralizzarlo con l’esercizio di contrapposte manifestazioni e, inoltre, perché egli è stato costretto a dichiarare di non essere cattolico al fine di sottrarsi a questa imposizione.
In ogni caso il dr. Tosti ha anche dedotto la palese lesione del diritto all’eguaglianza e non discriminazione religiosa perché, se si ritiene che “sia giusto” che coloro che non sono cattolici (come lui) debbano subire l’imposizione dei crocifissi perché si tratterebbe di “simboli passivi”, anche i cattolici debbono subire l’imposizione dei simboli ebraici (o atei, islamici etc. etc.) per lo stesso motivo, cioè perché si tratta di simboli altrettanto passivi. La tolleranza implica infatti il rispetto reciproco -e non il rispetto a senso unico- sicché il diniego di esporre i propri simboli ha integrato una palese violazione del diritto all’eguaglianza, di cui ha chiesto tutela giurisdizionale.
E sotto questo profilo si manifesta del tutto infondata la tesi di chi ha sostenuto che l’esposizione della menorà non era “giuridicamente” possibile, dal momento che solo il Parlamento poteva accordare, con legge, un simile diritto al Tosti. Va rammentato, infatti, che il diritto all’eguaglianza e non discriminazione è garantito a qualsiasi persona sia dall’art. 3 della Costituzione che dall’art. 14 della Conv. sui dir. dell’uomo, sicché non occorreva e non occorre alcuna “legge” del Parlamento per garantire agli ebrei lo stesso trattamento che il Ministro di Giustizia ha accordato ed accorda ai cattolici.
Va poi evidenziato che la Grande Camera della CEDH ha avuto cura di puntualizzare, nel § 57 della sentenza Lautsi, che essa pronunciava esclusivamente sulla “question ...... de la présence de crucifix dans les salles de classe des écoles publiques italiennes” e non si è invece pronunciata “sur la question de la présence de crucifix dans d'autres lieux que les écoles publiques”.
La Corte ha poi relativizzato gli effetti dell’esposizione del crocifisso, osservando al § 74 della decisione che secondo le “indicazioni fornite dal Governo italiano” nelle scuole italiane ci sarebbe la possibilità, da parte degli alunni, di esibire la propria simbologia religiosa: una circostanza, questa, assolutamente falsa alla luce del caso Adel Smith della scuola di Ofena (AQ) e che, comunque, non ricorre nel caso di specie, posto che i simboli esposti dal Tosti sono stati rimossi e gli è stato poi fatto espresso divieto di esporre la menorà.
Va infine rimarcato che la giurisprudenza interna sopra menzionata (CSM, SS.UU. Civili, Cassazione penale e Corte di Appello penale di L’Aquila) ha affermato che il crocifisso nelle aule di giustizia viola il principio di laicità e i diritti inviolabili di libertà e di eguaglianza religiosa del Tosti, sicché tale giurisprudenza non può essere neutralizzata o disattesa con il richiamo di sentenze della CEDH che siano meno favorevoli di quelle pronunciate dai giudici domestici: infatti, utilizzare la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo per ridurre il livello di garanzie offerte dall’ordinamento interno è vietato dall’art. 53 della CEDU e contrasta con l’insegnamento della Corte costituzionale, secondo cui la giurisprudenza di Strasburgo non può mai tradursi in una diminuzione del livello di tutela rispetto a quello previsto nell’ordinamento interno, dovendo il confronto tra tutela prevista dalla Convenzione e tutela costituzionale dei diritti fondamentali essere effettuato “mirando alla massima espansione delle garanzie” (cfr. Corte cost., sent. 264 del 2012).
DECIMO PUNTO.
In decimo luogo si ritiene utile svolgere delle considerazioni sul significato, sulla valenza e sugli effetti dell’ostensione obbligatoria dei crocifissi nelle aule di giustizia, ancorché i giudici interni si siano peraltro pronunciati in senso favorevole sulle tesi del ricorrente ed esse siano comunque superflue in questo grado di giudizio, ove si controverte esclusivamente sulla sussistenza o meno della giurisdizione del G.A.
L’ostensione del crocifisso: significati e valenze.
(1)               L’ordinamento italiano considera il crocifisso come un simbolo religioso e la giurisprudenza qualifica pacificamente i crocifissi quali “oggetti di devozione e di culto” (e non oggetti di arredamento, come un tavolo o una sedia), tant’è che ravvisa il reato previsto e punito dall’art. 404 c.p. [Offese a una confessione religiosa mediante vilipendio o danneggiamento di cose] nella condotta di chi vilipenda, distrugga, deteriori o imbratti tale simbolo in un luogo pubblico o aperto al pubblico, quale sarebbe per l’appunto un’aula di tribunale (in tal senso si veda Cassazione penale, sez. I, sentenza 28 ottobre 1966, Fagiali; Cassazione penale, sez. III, 21 dicembre 1967, Conti; Tribunale di Padova, 14 giugno 2005, Smith).
(2)               Nel diritto italiano l’esposizione del crocifisso sulla propria persona o in altro luogo di appartenenza è considerata un atto di manifestazione di libertà religiosa, cioè di professione e di propaganda di fede, come si ricava dall’art. 58, comma 2, del regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario (d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230) che, tra le “manifestazioni della libertà religiosa” consentite ai detenuti, prevede appunto l’esposizione “nella propria camera individuale o nel proprio spazio di appartenenza nella camera a più posti” di “immagini e simboli della propria confessione religiosa”. Lo stesso Ministro di Giustizia, del resto, ha sostenuto, nel presente giudizio, che l’”ostensione” del crocifisso nelle aule di giustizia rappresenta un “atto di manifestazione di fede ex art. 19 Costituzione da parte dello Stato italiano (“laico”!)
(3)               Giova ricordare che i primi tribunali nei quali sono stati esposti i crocifissi sono stati i (criminali) Tribunali della Santa Inquisizione e che ancor oggi la Chiesa li espone nei Tribunali ecclesiastici. Il loro scopo è quello di ostentare la fede in Dio e di connotare di sacralità cristiana l’esercizio della funzione giurisdizionale. Il ricorrente non avanza ovviamente dubbi sulla liceità dell’ostensione del crocifisso nei tribunali ecclesiastici, sia perché si tratta di una scelta che rientra nell’ambito del legittimo esercizio del diritto di libertà religiosa della Chiesa, sia perché, trattandosi di tribunali “confessionali”, l’esposizione del “vessillo” della Chiesa e del Vaticano è del tutto fisiologica ed assume la stessa valenza “identitaria” che assumono, nei tribunali “laici”, le bandiere e gli altri simboli dell’Autorità statale. Il ricorrente ritiene, anzi, che né lo Stato italiano né altri potrebbe imporre alla Chiesa Cattolica l’obbligo di esporre nei tribunali ecclesiastici la bandiera italiana o i simboli religiosi di altra confessione: si tratterebbe, infatti, di un’indebita ingerenza che violerebbe sia il principio di “confessionalità” della Chiesa cattolica che il suo diritto di libertà religiosa.
(4)               Alla stessa stregua, però, il ricorrente ritiene che né al Vaticano né alla Chiesa Cattolica né al Ministro di Giustizia competa il diritto di imporre ai dipendenti, ai cittadini italiani e alla Repubblica italiana -che è e deve essere neutrale e aconfessionale- l’obbligo di esporre nei tribunali italiani il “vessillo” della religione cattolica: si tratta, infatti, di un’ingerenza altrettanto indebita, che viola non solo l’obbligo dello Stato italiano (e quindi dei giudici) di amministrare la giustizia in modo visibilmente imparziale e neutrale, ma anche il diritto di libertà religiosa delle persone che, per motivi di lavoro (come il Tosti) o di giustizia, sono costrette a frequentare gli uffici giudiziari.
(5)               L’esposizione del crocifisso nelle aule di giustizia italiane significa, infatti: a) condivisione e propaganda della fede dei cattolici, in violazione così del diritto (negativo) di libertà religiosa di tutti coloro che, come il Tosti, sono costretti –o per motivi di lavoro o per esigenze di giustizia– a frequentare quelle aule; b) evocare e trasmettere il messaggio simbolico secondo cui la funzione giurisdizionale è esercitata sotto la tutela di una confessione religiosa, in dispregio del principio supremo di laicità che vieta a qualsiasi istituzione pubblica di professare una fede religiosa ed impone, al contrario, l’obbligo della neutralità di chi (come il magistrato Tosti) è chiamato ad esercitare la giurisdizione; c) evocare e trasmettere il messaggio monoconfessionale secondo cui nelle aule di giustizia italiane è ammessa soltanto la simbologia religiosa cattolica, in lesione del diritto alla non discriminazione religiosa di chi, non essendo cattolico o credente come il Tosti, non ha la pari opportunità di veder esposti e di propagandare i propri simboli in uno spazio pubblico.
(6)               Nel caso di specie, i valori evocativi del messaggio religioso del crocifisso risultano non tollerabili per il ricorrente Luigi Tosti, che non accetta di condividere un simbolo e una religione che non gli appartengono e che non accetta di giudicare, al pari dei giudici dell’Inquisizione e dei tribunali ecclesiastici, sotto la tutela simbolica di quel vessillo e di quel messaggio.
(7)               Il ricorrente Luigi Tosti è una persona che nell’esercizio del suo insindacabile diritto individuale di libertà religiosa è avversa a qualsiasi forma di simbolismo religioso o di idolatria, tant’è che non espone sulla sua persona o negli spazi privati di appartenenza simboli, idoli o cosiddette immagini sacre.
(8)               Luigi Tosti è un cittadino italiano che, dopo aver superato un concorso pubblico in magistratura, ha accettato di lavorare alle dipendenze del Ministero di Giustizia di una Repubblica “laica” e, quindi, in tribunali che non possono imporre né ai dipendenti come lui né ai cittadini giustiziabili l’obbligo di condividere atti di manifestazioni di libertà religiosa né connotazioni religiose partigiane dell’attività lavorativa espletata. In particolare, lo statuto costituzionale della funzione giurisdizionale stabilisce che “la giustizia è amministrata in nome del popolo e che i giudici sono soggetti soltanto alla legge” (art. 101 Cost.), legge davanti alla quale tutti i cittadini “sono eguali, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
(9)               Per contro, Luigi Tosti non ha scelto di “esercitare la professione di giudice” in un Tribunale ecclesiastico, cioè all’interno di un Ente religioso per il quale il crocifisso assume indubbiamente caratteristiche identitarie che sono essenziali e determinanti per lo svolgimento della sua attività confessionale: se lo avesse fatto, non avrebbero potuto accampare-e non accamperebbe oggi- la pretesa di far rimuovere i crocifissi dalle aule giudiziarie italiane o di esporre i propri simboli religiosi ma, al contrario, avrebbe dovuto subire la limitazione dei suoi diritti di libertà e di eguaglianza religiosa. In tal senso si è pronunciata la CEDH nell’arresto del 20 ottobre 2009, relativo all’affaire Lombardi Vallauri c. Italia, requête no 39128/05, par. 41 e 44, laddove si è ritenuta legittima la restrizione del diritto di libertà di espressione (art. 10) e del diritto di libertà di pensiero, di coscienza e di religione (art. 9) di un professore universitario, perché “giustificata dallo scopo di tutelare un “diritto altrui”, cioè l’interesse di un’Università cattolica a dispensare un insegnamento conforme alle convinzioni religiose dell’Ente universitario[4].
(10)           Ad opposte conclusioni si deve però pervenire nel caso di specie. La restrizione della libertà religiosa del Tosti non si giustifica, infatti, per la qualità soggettiva del Ministero di Giustizia, che non è un ente religioso ma, al contrario, un organo amministrativo di uno Stato laico che, dunque, è tenuto all’assoluta neutralità religiosa e al rispetto dei diritti di coscienza, di libertà religiosa e di eguaglianza di tutti coloro che (come il Tosti) sono costretti a frequentarli per “motivi di lavoro o di giustizia”. Per altro verso poi, l’esposizione del crocifisso nelle aule giudiziarie non è giustificata dalla natura “religiosa” dell’attività giurisdizionale che viene espletata dai tribunali italiani ma, anzi, vi si pone in insanabile conflitto, perché calpesta il principio di neutralità e di imparzialità dei giudici,  sancito dalla Costituzione italiana (art. 111) e dalla Convenzione (art. 6).
(11)           Riepilogando, il ricorrente sostiene che il Ministro di Giustizia –non essendo un Ente religioso– non poteva limitare la sua libertà religiosa, di pensiero e di coscienza, imponendogli di condividere nelle aule giudiziarie l’esposizione del crocifisso come “simbolo venerato” e conferendogli dunque, durante la celebrazione dei processi, connotazioni confessionali smaccatamente cattoliche: connotazioni che la sua coscienza e libertà non tollerano, sia perché contrarie ai suoi convincimenti religiosi, sia perché contrarie ai precetti costituzionali e convenzionali che impongono allo Stato italiano e ai giudici di essere neutrali e imparziali nell’esercizio dell’attività giurisdizionale.
(12)           E’ bene puntualizzare che Luigi Tosti non si è mai doluto del fatto che le persone che frequentano gli uffici giudiziari possano esporre sulla propria persona i crocifissi (o altri simboli): si tratta infatti di manifestazioni di libertà religiosa dei singoli cittadini che sono garantite – anche in luoghi pubblici–  dall’art. 9 della Convenzione e dall’art. 19 della Costituzione e che, pertanto, non ledono i diritti di libertà religiosa altrui, perché sono “neutralizzate” dall’identica facoltà che è concessa –in positivo o in negativo–  a tutti coloro che praticano fedi diverse o che non ne praticano alcuna. Egli ritiene, al contrario, che di fronte all’ostensione dei simboli religiosi altrui – ancorché non condivisi–  si imponga, di regola, la “tolleranza”: la quale però implica, in un regime democratico che si fonda necessariamente sull’eguaglianza e pari dignità di qualsiasi ideologia religiosa o filosofica, che la “tolleranza” sia reciproca -e non a senso unico- e che dunque vi debba essere un reciproco rispetto delle opinioni, anche se non condivise.
(13)           Il ricorrente contesta che il Ministro di Giustizia di uno Stato laico possa imporre l’esposizione del crocifisso nelle aule giudiziarie, e cioè in luoghi che debbono essere indefettibilmente neutrali. In questo modo, infatti, l’ostensione del crocifisso nelle aule di giustizia non è più un legittimo atto di “manifestazione di libertà religiosa” “in un luogo pubblico”, ma un’imposizione e un’ingerenza indebite nella sfera di libertà religiosa di chi –come il Tosti– è contrario a qualsiasi forma di idolatria e non si identifica in quel simbolo e, anzi, se ne dissocia per gli efferati crimini contro l’umanità che sono stati commessi in suo nome- ma che, tuttavia, è stato costretto a condividerli negli ambienti giudiziari che ha dovuto necessariamente frequentare per poter esercitare le proprie mansioni lavorative, senza nemmeno avere l’opportunità di neutralizzarli con l’esposizione dei propri simboli.
(14)           L’imposizione del crocifisso nelle aule giudiziarie non può essere considerata un atto “neutro” ai fini del rispetto della libertà religiosa, così come non lo sarebbe l’obbligo di partecipare alle udienze col crocifisso al collo o cucito sulla toga del giudice. E se un crocifisso o altra simbologia religiosa appesi al collo o cuciti sulla toga connotano di partigianeria religiosa l’esercizio della giurisdizione e ledono la libertà religiosa dei soggetti che sono obbligati ad indossarli, un crocifisso appeso sulla parete non può non avere la stessa identica valenza religiosa, gli stessi identici significati e gli stessi effetti pregiudizievoli sulla libertà dei soggetti obbligati a subirli e sul rispetto del principio dell’ equo processo da parte di giudici imparziali.
(15)           La circostanza che in Italia molti si siano “assuefatti” alla visione dei crocifissi –perché sono rimasti appesi alle pareti fin dall’epoca del fascismo– non deve indurre all’erroneo convincimento che la loro imposizione sia ininfluente con l’argomento che il crocifisso è un simbolo “passivo” che non obbliga nessuno a credere: il diritto negativo di libertà religiosa, infatti, non implica soltanto quello di non essere obbligati a credere in una religione, ma anche quello di non essere costretti a subire o condividere atti di manifestazioni di libertà religiosa altrui, senza peraltro avere possibilità di neutralizzarli -come avviene nel caso di specie- con l’esercizio di contrapposte manifestazioni. Il Ministro di Giustizia e il Presidente del Tribunale di Camerino hanno infatti proibito (ed anzi rimosso) l’esposizione della menorah ebraica e del logo dell’UAAR,  e il CSM e le SS.UU. civili della Cassazione hanno da parte loro sancito che “per esporre i simboli degli ebrei (e di altre confessioni religiose) occorrerebbe una “legge” del Parlamento”: argomento, questo, specioso, perché la Costituzione Italiana e la Conv. sui diritti dell’Uomo garantiscono agli ebrei (e non solo agli ebrei) gli stessi diritti e la stessa dignità che lo Stato italiano accorda ai “cattolici”: non esistono né “razze” superiori né “fedi” superiori.
(16)           L’imposizione del crocifisso non può essere considerato un atto anodino perché, altrimenti, dovrebbe ritenersi altrettanto anodina l’imposizione a tutti i cittadini italiani dell’obbligo di esporre i crocifissi nelle loro abitazioni: il che non può essere giustificato, perché l’ostensione di un simbolo religioso è un atto di manifestazione di libertà religiosa che, come tale, non può essere imposto a nessuno.
(17)           Concludendo, il ricorrente ritiene che la restrizione del diritto negativo di libertà religiosa e di coscienza (art. 9 CEDU), provocata dall’imposizione del crocifisso, può essere giustificata solo per chi ha scelto, volontariamente, di lavorare alle dipendenze di un tribunale ecclesiastico, ma non per chi è costretto a lavorare in un tribunale laico che -tra l’altro- sia in base all’art. 6 della Convenzione che in base all’art. 111 della Costituzione italiana, deve essere connotato da assoluta imparzialità e neutralità, e non da partigianeria religiosa.
(18)           Sul piano della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo va considerato che nell’organizzare il servizio della giustizia le Parti Contraenti debbono rispettare l’art. 6, § 1, che garantisce il diritto ad una giustizia che, oltre ad essere imparziale, appaia tale.
In Klein c. Pays– Bas, del 6 maggio 2004, ai §§ 190 ss., la Grande Chambre ha sottolineato che anche l’apparenza di imparzialità è una qualità importante per i tribunali, perché i dubbi al riguardo debbono essere esclusi ed i soggetti devono poter aver fiducia nel giudice:
Quant à la condition d’«impartialité», au sens de l’article 6 § 1 de la Convention, elle revêt deux aspects. Il faut d’abord que le tribunal ne manifeste subjectivement aucun parti pris ni préjugé personnel. Ensuite, le tribunal doit être objectivement impartial, c’est– à– dire offrir des garanties suffisantes pour exclure tout doute légitime à cet égard. Dans le cadre de la démarche objective, il s’agit de se demander si, indépendamment de la conduite personnelle des juges, certains faits vérifiables autorisent à suspecter l’impartialité de ces derniers. En la matière, même les apparences peuvent revêtir de l’importance. Il y va de la confiance que les tribunaux d’une société démocratique se doivent d’inspirer aux justiciables, à commencer par les parties à la procédure”.
(19)           L’importanza dell’apparenza, in questo settore, è stata ribadita dalla giurisprudenza successiva della CEDH: così, ad esempio, Sacilor Lormines c. France, del 9 novembre 2006, § 60 e Micallef c. malte, del 15 ottobre 2009, § 98, la quale, richiamando diversi precedenti ci ricorda che “«justice must not only be done, it must also be seen to be done» (il faut non seulement que justice soit faite, mais aussi qu'elle le soit au vu et au su de tous)”.
Ora, una giustizia amministrata in locali arredati col crocifisso per definizione appare non imparziale sotto il profilo della equidistanza rispetto ai convincimenti religiosi. D’altro canto, se l’esposizione del crocifisso appare del tutto lecita e giustificata nei tribunali ecclesiastici, perché è deputata a connotare di “confessionalità” e di “sacralità” l’esercizio della funzione giurisdizionale da parte di quei giudici, essa appare del tutto illecita e ingiustificata nei tribunali della Repubblica italiana che, per dettato costituzionale, debbono essere laici e neutrali.
Se il principio di laicità implica l’ “obbligo” dello Stato di essere neutrale imparziale ed equidistante in materia religiosa, deve necessariamente sussistere un “diritto” da parte di uno o più soggetti attivi. Il principio di laicità deve dunque essere qualificato come un vero e proprio “rapporto giuridico”, in virtù del quale un soggetto (nella specie lo Stato) è tenuto ad un determinato comportamento (nella specie: equidistanza, neutralità ed imparzialità) nei confronti di “altri soggetti”. Ebbene, dal momento che il principio di laicità si fonda non soltanto negli art. 7 ed 8 e 20 della Costituzione -cioè sui diritti primari di eguaglianza della associazioni religiose- ma anche sugli altri art. 3 e 19, cioè sui diritti primari di eguaglianza degli individui, si deve dedurre che ai singoli individui competa il diritto primario di pretendere l’osservanza di tale fondamentale principio.
Per convincersene, basta pensare a quale sarebbe l’immagine della funzione giurisdizionale se essa fosse amministrata in aule invariabilmente arredate soltanto con il simbolo di un determinato partito politico.
UNDICESIMO PUNTO
A chiusura della presente memoria si ritiene doveroso sottoporre all’esame dell’Ecc.mo Consiglio di Stato l’ “Opinione ebraica sul crocifisso” espressa dal Rabbino Capo di Roma prof. dott. Riccardo di Segni, pubblicata dalla newletter Kolot lunedì 30 settembre 2002, ore 8:35, cioè ben prima dell’inizio dell’azione legale intrapresa dal dr. Tosti.
Lo scopo è quello di riportare l’opinione di una persona più autorevole del ricorrente che, in termini non tecnici ma estremamente logici, ha espresso il suo dissenso nei confronti dell’esposizione del crocifisso negli uffici pubblici italiani per motivi che coincidono, nella sostanza, con quelli esposti dal ricorrente: e cioè che in un Paese realmente “laico” gli spazi pubblici non possono essere riservati ad una sola religione, ancorché maggioritaria. La vera laicità dello Stato comporta l’inclusione di tutte le fedi e di tutte le culture, in regime di eguaglianza e di reciproco rispetto, senza privilegi per alcuno.
Questo è quello che scriveva, nel 2002, il Prof. Riccardo Di Segni:
Un’opinione ebraica sul crocifisso
Gli antichi testi rabbinici raccontano una storia su Rabban Gamliel (Gamaliele), l'autorevole rabbino che difese nel Sinedrio i primi fedeli di Gesù e di cui l'apostolo Paolo si vantava di essere stato discepolo. Gamliel frequentava le terme di Afrodite di Acco, un luogo pieno di statue dedicate agli dei; ed era molto strano che lo facesse il rappresentante tanto importante di una religione che rifiutava l'idolatria. Gamliel si giustificava in questo modo: “non sono stato io ad andare nel territorio di Afrodite, ma è stata Afrodite a venire nel mio territorio”. In altri termini, bisogna distinguere tra il territorio di Afrodite, cioè il tempio che le è dedicato e nel quale chi rifiuta l'idolatria non deve entrare, e la casa di tutti, come le terme pubbliche, dove qualcuno può anche averci introdotto immagini proibite, ma non per questo diventa proibita ai frequentatori. La posizione di Gamliel era quella del rappresentante di una religione allora senza potere politico, che non poteva permettersi, anche se l'avesse voluto, l'abolizione forzata delle immagini idolatriche. Cominciarono a farlo e ci riuscirono, tre secoli dopo questa storia, i rappresentanti del cristianesimo trionfante sugli “dei falsi e bugiardi”. Da allora fu il cristianesimo a riempire gli spazi pubblici dei segni della sua fede. Non fu un processo senza ostacoli, perché anche nel cristianesimo l'uso delle immagini nella pratica religiosa fu sempre causa di discussioni e divisioni; non tanto per il cattolicesimo: e noi in Italia, dove la realtà cristiana è in gran parte cattolica, dobbiamo confrontarci con le scelte di questa parte del mondo cristiano così fedele alle sue immagini di culto.
Per Gamliel, che era lo spettatore passivo dell'irruzione nel luogo pubblico di immagini che lo disturbavano, ma contro le quali non poteva fare nulla, si trattava di decidere se era lecito frequentare il luogo pubblico. Per la società moderna, nella quale ogni cittadino partecipa democraticamente alla decisione collettiva, il problema va oltre: si tratta di decidere se sia lecita l'introduzione di un segno privato in un luogo pubblico. La questione che oggi si pone del crocifisso nelle scuole, forse con un'enfasi esagerata, è quella dei limiti da porre al desiderio di una fondamentale componente della società a porre e imporre il segno della sua fede nella casa di tutti, nella quale coabitano tutte le altre parti della società. Non bisogna dimenticare che ogni stato moderno, per quanto laico possa dichiararsi, ha stabilito dei patti con le religioni, maggioritarie e minoritarie, derogando più o meno dal principio dell'assoluta separazione tra stato e religioni. Ciò che è avvenuto in Italia è il prodotto di una storia lunga e travagliata, e ciò che non è stato ancora definito con precisione, e che sta ai limiti delle decisioni consolidate, come il caso del crocifisso, solleva di tanto in tanto delle polemiche, banco di prova e di scontro tra almeno due concezioni diverse.
In questo dibattito può avere qualche importanza conoscere gli stati d'animo e le domande di molti ebrei italiani. Si dice che il crocifisso sia un segno culturale, e che non bisogna rinunciare alla propria cultura e alle proprie tradizioni per un malinteso senso di rispetto delle minoranze. E' vero che il crocifisso è anche un segno culturale, ma non è per questo che lo si vuole nelle scuole; lo si vuole perché è prima di tutto un segno religioso, e il problema è essenzialmente religioso. I cattolici rivendicano con giusto orgoglio che questo è per loro un segno di amore e di speranza, e non si capisce allora perché non debba essere presente ovunque. Ma visto da altre parti, come quella ebraica, il senso di quel segno è differente. Per noi è prima di tutto l'immagine di un figlio del nostro popolo che viene messo a morte atrocemente; ma è anche il terribile ricordo di una religione che in nome di quel simbolo, brandito come un'arma, ha perseguitato, emarginato, umiliato il nostro ed altri popoli, cercando di imporgli quel simbolo come l'unica fede possibile e legittima. La storia passata della Chiesa ha trasformato quel simbolo, che dovrebbe essere di amore, in un segno di oppressione e intolleranza. L'ultimo Concilio ha cambiato nettamente la direzione, ma la richiesta ripetuta di occupare il luogo pubblico con quel segno ripropone alla nostra memoria il tema dell'intolleranza. La domanda che allora si pone a quella parte del mondo cattolico che si batte tanto per il crocefisso è se siano tornati, o non siano mai finiti, i tempi in cui la religione cattolica ha pensato di imporsi e diffondersi non con la testimonianza e la pratica esemplare delle sue virtù, ma con l'invasione, la forza, l'occupazione. Il problema che ci preoccupa è quale modello di religione sia dietro alle richieste dei difensori del crocifisso. Come membri minoritari di una società pluralistica continuiamo a ragionare con Gamliel, e a non rinunciare agli spazi pubblici, subendone, se inevitabile, l'occupazione con segni privati; come cittadini partecipiamo al dibattito civile per definire i limiti e i diritti di ogni religione nella società laica; come fratelli, rivolgiamo ai fratelli cattolici una domanda preoccupata sulla loro identità, sul loro modo di vivere e proporre la loro fede al mondo circostante.
P. Q. M.
si insiste per l’accoglimento dell’appello, con conseguente annullamento della sentenza e rinvio al TAR delle Marche per il giudizio di merito.
Si producono i seguenti documenti:
1)                 sentenza 17 febbraio 2009 n. 28482 della VI Sez. Cass. Penale;
2)                 ordinanza Sez. disc. CSM n.12 del 31 gennaio/23 novembre 2006;
3)                 sentenza Sez. disc. CSM n. 88 del 22 gennaio/26 maggio 2010;
4)                 sentenza SS.UU.Civili n. 5924 dell’8 febbraio/14 marzo 2011;
5)                 ordinanza Corte Appello penale di L’Aquila 5.7.2012;
6)                 sentenza Corte Appello penale di L’Aquila 5.7.2012 n. 2072.
Camerino/Roma, li 29 giugno 2013
                                                                       Avv. Fabio Pierdominici
 



[1] che il Tosti ha prospettato sin dalle sue lettere del 30.10.2003, del 9.12.2003 e del 7.1.2004 e che ha poi ribadito nel ricorso al TAR.
[2] Così si è espressa la Cassazione penale: "La tesi sostenuta dall'imputato.... ha una sua sostanziale dignità e meriterebbe un adeguato approfondimento, per verificarne la fondatezza o meno, considerato che, allo stato, non risultano essere state congruamente affrontate e risolte alcune tematiche di primario rilievo per la corretta soluzione del problema: a) la circolare del Ministro di Grazia e Giustizia del 29/5/1926 è un atto amministrativo generale, che appare però privo di fondamento normativo e quindi in contrasto con il principio di legalità dell'azione amministrativa (artt. 97 e 113 Cost.); b) detta circolare, tenuto conto anche dell'epoca a cui risale, non sembra essere in linea con il principio costituzionale di laicità dello Stato e con la garanzia, pure costituzionalmente presidiata, della libertà di coscienza e di religione; c) occorre individuare l'eventuale sussistenza di una effettiva interazione tra il significato, inteso come valore identitario, della presenza del crocifisso nelle aule di giustizia e la libertà di coscienza e di religione, intesa non solo in senso positivo, come tutela della fede professata dal credente, ma anche in senso negativo, come tutela del credente di fede diversa e del non credente che rifiuta di avere una fede.....La contestazione della legittimità dell'affissione del crocifisso nelle aule di giustizia, avvenuta sulla base di una circolare ministeriale non assistita da una espressa previsione di legge impositiva del relativo obbligo, implica - tra l'altro - un problema di carattere generale, che può essere fatto valere sollecitando la Pubblica Amministrazione a rivedere la propria scelta dell'arredo delle dette aule e, in caso di esito negativo, adendo il giudice amministrativo, che ha giurisdizione esclusiva al riguardo, ai sensi dell'art. 33 del d.lgs. n. 80/1998, vertendosì in tema di contestazione della legittimità dell'esercizio del potere amministrativo (cfr. Cass. S.U. civili 1017/2006 ord. n. 15614; Cons. St. sent. n. 556/2006).
 
[3] Così motiva la Sezione disciplinare: la rimozione ..... (è) l’unica ragionevole in conseguenza della prevedibile ed immediata reiterazione delle medesime condotte in caso di riattribuzione delle funzioni. Il dott. Tosti ha manifestato la irremovibile volontà di tenere fermo il suo rifiuto fino a quando non sarà tolto il crocifisso dalle aule d’udienza o non sarà esposta la menorà ebraica. Ha esplicitamente dichiarato che non defletterebbe da tale decisione neanche in futuro se gli fosse data occasione di rinnovare, con la restituzione delle funzioni, il rifiuto di esercitarle.) Tale determinazione...... è sintomatica ..... di un ostinato e pervicace arroccamento sulle proprie posizioni, incompatibile con la ripresa dell’attività giurisdizionale in adeguate condizioni di prestigio e serenità”.
[4]          A supporto di tale pronuncia la CEDH ha richiamato l’art. 3 del D.P.R. n. 216/2003 che, recependo la direttiva n. 78/2000/CE (art. 4), ha disposto che “nell'ambito del rapporto di lavoro o dell'esercizio dell'attività di impresa.... non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell'articolo 2 le differenze di trattamento, basate sulla professione di una determinata religione o di determinate convinzioni personali, che siano praticate nell'ambito di enti religiosi o altre organizzazioni pubbliche o private, qualora tale religione o tali convinzioni personali, per la natura delle attività professionali svolte da detti enti o organizzazioni o per il contesto in cui esse sono espletate, costituiscano requisito essenziale, legittimo e giustificato ai fini dello svolgimento delle medesime attività.
 
 

1 commento:

Mio ha detto...

Luigi continua così, sei grande!